Molti si chiedono perché sia importante trovare una soluzione al problema della tassazione dell’economia digitale. La risposta è abbastanza semplice, come suggeriscono le vicende degli accertamenti fiscali sulle multinazionali del web.
Lo sviluppo e le caratteristiche dell’economia digitale impongono attenzione sia alle forme tradizionali di tassazione dei redditi prodotti dalle multinazionali del web, sia a quelle forme di tassazione diverse, ma sempre legate alla “rete”, che hanno per oggetto non il reddito in sé o un suo surrogato, ma altre manifestazioni di capacità contributiva, altri modi di creare ricchezza.
Una nuova ricchezza
La tradizionale tassazione reddituale o patrimoniale è assolutamente inidonea a intercettare e tassare i redditi prodotti dalle digital enterprises. Ciò dipende da molti fattori, primo tra tutti la difficoltà di controllare, con gli ordinari strumenti di accertamento, le cosiddette transazioni virtuali che si celano dietro la produzione di tali redditi, e cioè transazioni globali, anonime, dematerializzate e (spesso) prive di intermediari. Il settore dell’economia digitale, dominato da grandi multinazionali, è in grado di produrre redditi molto elevati, ma tali redditi difficilmente possono essere assoggettati a tassazione nel Paese della fonte e quando anche ciò accade, lo sono in misura molto ridotta.
Sono quindi maturi i tempi per procedere a una ristrutturazione globale dell’attuale sistema delle imposte societarie e introdurre criteri e istituti nuovi che consentano di attrarre a tassazione le attività svolte nel territorio, ma non imputabili a una stabile organizzazione.
Studiosi e autorità internazionali concordano nel ritenere che le caratteristiche dell’economia digitale richiedono di affrontare il tema della tassazione delle web companies con strumenti, procedure e principi tributari nuovi, possibilmente frutto di accordi intergovernativi. Queste caratteristiche sono state anche individuate in sede Ocse: si va dalla mobilità (riferita sia a beni intangibles sia agli utenti) all’uso massivo di dati; dall’effetto delle interazioni e delle sinergie tra gli utenti alla tendenza a creare monopoli e oligopoli.
È proprio “approfittando” di queste caratteristiche le imprese dell’economia digitale hanno facilmente ridotto il carico fiscale, eroso le basi imponibili e trasferito i profitti nei Paesi a più bassa fiscalità. L’elevatissimo grado di dematerializzazione dell’industria digitale consente a queste società di evitare di avere una taxable presence attraverso una stabile organizzazione.
La presenza di intangibles altamente remunerativi favorisce, insomma, il trasferimento infragruppo degli stessi al solo scopo di minimizzare il carico fiscale. E anche se si potesse configurare una taxable presence nel territorio dello Stato, esse potrebbero pur sempre disporre di un’ulteriore tecnica di erosione della base imponibile, consistente nella massimizzazione delle deduzioni per i pagamenti effettuati nei confronti dello stesso head office o di altre imprese del gruppo non residenti sotto forma di interessi, royalties e service fees. Il tutto, sfruttando anche l’interposizione di shell companies localizzate in Paesi che godono di regimi convenzionali privilegiati.
Molti Paesi si sono interrogati su come evitare queste “fughe”. Tra le molte proposte ed esperienze, merita attenzione quella del Regno Unito, dove dall’aprile del 2015 trova applicazione una speciale tassa sui profitti dirottati, la cosiddetta Diverted Profits Tax che ha l’obiettivo di rendere inopponibili gli accordi stipulati da grandi gruppi con il fine di erodere la base imponibile nel Regno Unito. Questa imposta si applica in due ipotesi. La prima è quella in cui una società non residente effettua vendite e compie, comunque, operazioni rilevanti nel Regno Unito, eludendo la creazione di una stabile organizzazione. La seconda ipotesi è quella in cui una società residente o una società non residente, ma che esercita un’attività per la quale è soggetta alle imposte nel Regno Unito, godono di un vantaggio fiscale utilizzando accordi o soggetti terzi privi di sostanza economica.
La bit tax
La mia opinione su come costruire forme di tassazione accettabili dell'economia digitale è che ci si dovrebbe muovere su piani diversi da quelli tradizionali, sulla falsariga dei principi dell'Ocse e guardando anche alla normativa del Regno Unito.
In un’ottica non strettamente nazionale, la forma di tassazione di più facile attuazione mi sembra quella ideata nel 1995 da Arthur J. Cordell nota come bit tax, da tutti apprezzata ma mai realmente proposta. È un’imposta volta a tassare i dati trasmessi via internet, da applicare al traffico digitale per ogni unità di trasmissione elettronica, cioè il bit. Un tributo, quindi, che non colpisce un indice di capacità contributiva tradizionale come il reddito o il patrimonio, ma grava sulle trasmissioni di dati come un nuovo modo di fare ricchezza. I soggetti passivi sarebbero gli utilizzatori del web e delle altre infrastrutture telematiche e l’indice di capacità contributiva sarebbe la trasmissione di informazioni che generano in coloro che le acquisiscono una capacità di trarne profitto. La misurazione di tale capacità sarebbe data dal conteggio dei bit trasmessi. È evidente che la bit tax, così costruita, si pone fuori dal campo della specifica tassazione delle digital enterprises. Non può, quindi, essere assunta come uno strumento per recuperare a tassazione i redditi prodotti da tali società.
L’aliquota dell’imposta, secondo Cordell, dovrebbe essere di 0,000001 dollari per bit. Della sua riscossione dovrebbero occuparsi i common carrier delle telecomunicazioni, delle reti satellitari e dei sistemi via cavo. L’imposta verrebbe liquidata Paese per Paese.
La Diverted Profit Tax
Se dovessi invece pensare a un tributo nazionale, l’unico che mi parrebbe meritevole di un approfondimento, in via contingente e in questa fase storica, è la Diverted Profit Tax britannica (il Belgio, sulla scia di quest’ultima, ha varato di recente la Cayman Tax).
Sarebbe un’imposta diversa e autonoma rispetto all’ordinaria imposta societaria, la cui applicazione consentirebbe di rendere inopponibili quegli accordi stipulati da grandi gruppi con il fine di erodere la base imponibile.
La soluzione britannica sembra organica, rispettosa del Beps Action Plan dell’Ocse e coerente alla Raccomandazione C(2012)8806 della Commissione Ue. Avrebbe, forse, l’inconveniente di non essere di facile applicazione, dovendo nella sostanza l’amministrazione finanziaria essere in grado di determinare, solo in via induttiva e indiretta, i profitti che sono denunciati in altri Paesi a più bassa tassazione. Avrebbe, però, il vantaggio di essere costruita intorno al concetto di elusione fiscale, che innegabilmente è l’unico strumento offerto agli enti impositori per evitare l’aggiramento delle norme sulla stabile organizzazione. La Diverted Profit Tax consentirebbe all’ente impositore di avvalersi di una presunzione legale relativa, secondo cui la base imponibile sarebbe costituita dagli stessi profitti che sarebbero stati tassati se le operazioni fossero state poste in essere attraverso una stabile organizzazione applicando le norme interne eluse.
Un reddito senza Stato
Mutatis mutandis, l’Ufficio verificatore dovrebbe applicare le stesse tecniche di accertamento adottate per la ricostruzione dei redditi delle stabili organizzazioni occulte. Un “reddito senza Stato” (stateless income) diverrebbe così il presupposto del tributo speciale, indipendentemente dal suo formale radicamento nel territorio e dalla imputabilità di un'imposta societaria a un soggetto passivo residente nel Paese c.d. della fonte.
Ciò aprirebbe indubbiamente la porta a forme innovative europee di tassazione sulla “mera presenza” e sull’esistenza di un valido “nesso economico” (il cosiddetto nexus) dell'attività dell'impresa digitale con il territorio e sull'uso del mercato locale dall'esterno .
La caratteristica più interessante della Diverted Profit Tax è, insomma, che essa si limiterebbe a garantire il diritto degli Stati alla tutela e alla protezione delle proprie basi imponibili, ostacolato da comportamenti abusivi e artificiosi, senza mettere in discussione né i principi e le libertà economiche, né il diritto fondamentale del privato ad operare liberamente sui mercati. Sarebbe un prelievo che è diretto solo a contrastare la pianificazione fiscale aggressiva e l’abuso del diritto che la stessa Ue condanna. La Diverted Profit Tax non condizionerebbe la concorrenza nel mercato, ma la concorrenza fiscale tra stati, alcuni avvantaggiati, altri lesi nel loro interesse erariale.
Questo articolo è una sintesi del saggio
“Prospettive di tassazione dell’economia digitale” pubblicato sulla rivista «Diritto Mercato Teconologia»
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