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Dossier L’erraticità di Trump su commercio e politica estera

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    Dossier | N. 22 articoliAlla luce del sole

    L’erraticità di Trump su commercio e politica estera

    È possibile scorgere una chiara strategia e visione nella politica commerciale ed estera dell’amministrazione Trump? Difficile dirlo, considerate le discordanti affermazioni dei suoi diversi esponenti e la mutevolezza del presidente americano che creano perlomeno cacofonia. Si prenda il caso degli accordi di free-trade. Secondo Wilbur Ross, segretario al Commercio, benché si dipinga l’amministrazione Trump come protezionista, essa mira invece ad accordi con i partner più importanti.

    Anche se la cancellazione del Tpp è stata uno dei primi atti ufficiali di Trump, l’amministrazione avrebbe deciso diversamente con il Ttip aprendo la porta alla possibilità di rianimare i negoziati di libero scambio con la Ue. Ma - ha ammonito Ross - la Ue non è un partner privilegiato. Pertanto, dovrà guadagnarsi l’accordo in competizione con Giappone e Cina.

    Dopo aver ottenuto l’oblio della parola «protezionismo» nel comunicato del Fmi ad aprile, Trump ha lanciato una national security investigation che potrebbe portare alla resa dei conti globale sull’import dell’acciaio. La decisione di ricorrere a una legge del 1962 che permette al governo Usa di limitare le importazioni per ragioni di sicurezza nazionale, mira a dare sostanza alla promessa di favorire l’industria pesante e di mettere «acciaio americano nella spina dorsale del Paese». Si tratta di una scelta cruciale nel momento in cui Trump programma di incrementare le spese per la difesa.

    Ciò rischia di creare tensioni con la Cina, primo produttore mondiale, proprio quando se ne chiede l’intervento per la questione nordcoreana. Ma Trump insiste che il dumping dell’acciaio non ha a che fare con Pechino perché è una questione mondiale. Eppure l’industria americana ha biasimato in molte circostanze la sovra-capacità cinese per il crollo dei prezzi. Di fatto, gli Usa hanno lanciato ben 152 casi di antidumping sull’acciaio e altri 25 sono in attesa.

    Altrettanto contradditori sono i rapporti con Mosca, resi più complicati dagli interessi delle compagnie petrolifere americane in Russia. Le risorse di petrolio russo sono fra le più ambite dalle imprese Usa ed europee, ma le sanzioni inibiscono gli americani dallo sviluppare accordi con i russi.

    Così, Exxon Mobil ha chiesto una sospensione delle sanzioni per poter riprendere una joint-venture con il gigante di Stato Rosneft nell’esplorazione del Mar Nero. Anche perché teme di essere tagliata fuori dai competitor europei, innanzitutto Eni, poiché la Ue prevede casi di esenzione. Ma Trump, sotto la pressione dell’indagine del Congresso sui presunti rapporti con Mosca di membri della sua famiglia e di collaboratori politici, oltre che sulle interferenze nella campagna presidenziale, dopo strette consultazioni con il segretario al Tesoro Steven Mnuchin, l’ha respinta.

    Il punto è che le sanzioni, con le quali i governi occidentali speravano di costringere Putin a cambiare piani politici, hanno influito poco sul rallentamento dell’economia russa, colpita invece dal simultaneo crollo dei prezzi del greggio.

    Le limitazioni all’accesso a capitali e tecnologie straniere per l’esplorazione dei siti più complessi sono servite parzialmente allo scopo. Le compagnie russe hanno trovato modi per condurre avanti comunque le trivellazioni. Fra il 2013 e il 2016, la produzione di greggio russo è aumentata almeno del 6%, più del doppio di quella dei Paesi Opec. Di fatto, le sanzioni hanno costretto le compagnie russe ad accrescere la loro competitività. Gazprom ha registrato un aumento del 21% nei profitti 2016 aiutata anche da un’eccezionale domanda europea. Perciò il gigante russo continua a perseguire l’obiettivo di accrescere le vendite in Europa; e accelera sulla costruzione del North Stream 2 per favorire il trasporto del gas in Germania. Tutto ciò, mentre le imprese americane di esplorazione e produzione di shale oil e gas, secondo gli esperti, stanno rischiando un profluvio di investimenti che deve ancora dimostrare di poter davvero creare valore.

    Intanto a tener campo sono i mutamenti d’umore sul Nafta che mostrano quanto sia volatile la politica economica dell’amministrazione americana. Dopo le bellicose dichiarazioni di Trump su un ritiro unilaterale di Washington dall’accordo di libero scambio con il Messico e il Canada, denunciato come la principale causa di distruzione dei posti di lavoro negli Usa, ora il segretario al Commercio Ross asserisce che la priorità per gli Stati Uniti è rinegoziare il Nafta. Infatti, il ritiro metterebbe a rischio 1 trilione di dollari di commercio annuale e le catene di fornitura su cui contano molte imprese americane, creando un enorme shock al sistema produttivo.

    Così, sulla scena internazionale l’unica strategia messa in pratica da Washington appare quella tracciata di volta in volta dalla leadership erratica di Trump e argomentata dal suo team.

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