Non si comprendono i limiti dell’euro se non si considera la teoria macroeconomica su cui è stato costruito. In base a tale teoria, l’economia è, sì, soggetta a continue fluttuazioni, ma finisce sempre con l’auto-regolarsi: bastano piccoli dosaggi di policy ed essa torna al suo equilibrio “naturale” di piena occupazione (Blanchard, 2014). Prima della Grande recessione, l’eventualità che shock di modesta entità potessero degenerare in crisi di vaste proporzioni non era ritenuta verosimile dagli economisti.
Su questa teoria fu modellata la governance dell’Unione monetaria europea. I due pilastri che l’avrebbero retta (fiscale e monetario) furono eretti imponendo limiti stringenti all’uso delle politiche della domanda.
I due “pilastri”
Sul piano fiscale, il pilastro portante fu quello secondo cui gli Stati membri rimangono responsabili della politica di bilancio che, in un sistema di vincoli monitorati dall’esterno, mira a conseguire conti in pareggio o in eccedenza e lascia spazio agli stabilizzatori automatici solo quando ciò è necessario per smorzare gli effetti del ciclo. Il pilastro si regge sul convincimento che la spesa pubblica (improduttiva) spiazza quella privata (produttiva), il deficit di bilancio non ha effetti espansivi, e il conservatorismo fiscale, anche nelle fasi di crisi, fa bene alla crescita perché riduce il rischio sovrano, rafforza la fiducia dei mercati e attrae capitali.
Tale convincimento ignora del tutto la previsione dei meccanismi di redistribuzione fiscale e aggiustamento simmetrico tra i Paesi di un’unione monetaria, imprescindibili per garantirne la crescita stabile. Di conseguenza, allorché l’economia di un Paese è affetta da crisi di domanda, l’unica risposta è il consolidamento del bilancio pubblico, l’abbattimento di prezzi e salari, e la riduzione dell’assorbimento interno di beni e servizi. Questa visione ha rimosso la lezione keynesiana secondo cui la spesa di un soggetto è il reddito di un altro, sostituendola con il credo nell’austerità come unico percorso virtuoso verso la palingenesi.
Per quanto riguarda il pilastro monetario, il Trattato stabilì che «l’obiettivo principale (...) è il mantenimento della stabilità dei prezzi» (art. 127) e conferì alla banca centrale europea (Bce) piena indipendenza nella definizione operativa dell’obiettivo e nel suo perseguimento. Una scelta affatto diversa da quella adottata dagli Stati Uniti a fine anni Settanta, che impose alla Federal Reserve di perseguire non soltanto la stabilità dei prezzi ma anche la piena occupazione.
L’obiettivo demandato alla Bce affonda le radici nella teoria economica neoclassica, secondo cui mercati popolati da soggetti razionali e con prezzi e salari flessibili garantiscono allocazione efficiente delle risorse e piena occupazione (Fitoussi e Saraceno 2013). In tale contesto è l’offerta a determinare la domanda, sicché il solo ruolo riconosciuto alla politica economica è di accrescere la capacità produttiva dell’economia, considerando inutile o dannoso ogni intervento sulla domanda aggregata. Inoltre, il danaro è “neutrale”: agisce solo sul livello dei prezzi e non ha impatto sull’economia reale, se non nel breve periodo per via delle vischiosità che rallentano l’aggiustamento dei prezzi e l’adeguamento delle aspettative.
Ne deriva che ciò la banca centrale deve fare è attenersi all’obiettivo di crescita moderata dei prezzi, in modo da ancorare le aspettative degli operatori e ridurre l’incertezza sulle dinamiche dei prezzi relativi, aumentandone il valore segnaletico. Questa conclusione – implicita nello statuto della Bce – nega il ruolo che la politica monetaria può svolgere, soprattutto se coordinata con la politica fiscale, per rilanciare un’economia in recessione (Turner 2015).
Euro sì o euro no?
La Grande Recessione ha rivelato le gravi inadeguatezze dell’Eurosistema. Esso non dispone di strumenti per prevenire o arginare le crisi e priva l’Unione di quel potente meccanismo autopropulsivo di cui un’economia grande può avvantaggiarsi: la gestione attiva della domanda. Già prima che nascesse l’euro, Franco Modigliani (1998) e altri illustri economisti avevano avvertito, inascoltati, i pericoli della «perniciosa ortodossia che ha attanagliato i policy makers europei». Nonostante gli eventi abbiano confermato la perniciosità di quell’ortodossia, non si ravvisano i presupposti per l’affermazione di una visione diversa.
Basta ciò per concludere che l’Italia farebbe meglio ad abbandonare l’euro? No. I rischi sarebbero elevatissimi, a meno di condizioni particolari e di assai improbabile realizzazione (Bossone 2017). Come hanno scritto su Le Monde i 25 Premi Nobel commentando il programma anti-europeista di Marine Le Pen: «C’è una gran differenza tra il non aver mai aderito all’euro e l’uscirne dopo averlo adottato».
Occorre essere realisti: all’Italia non resta che rimanere nell’euro. Ma occorre anche uscire dagli schemi: non si può condannare il Paese alla stagnazione secolare, confidando nell’effetto taumaturgico di immaginifiche riforme strutturali mentre l’economia è strozzata da un fisco insopportabile, devitalizzata dall’assenza di prospettive di crescita, indebolita da scarsità di lavoro e basso potere d’acquisto e impossibilitata a muovere qualunque leva per risollevarsi. Occorre pensare a come recuperare spazio fiscale, invertire il crollo della domanda e sovvertire le aspettative di operatori votati alla depressione. La moneta fiscale offre l’unico strumento per conseguire quest’obiettivo senza mettere in discussione l’euro e, anzi, evitando che proprio dall’Italia ne origini il disfacimento (Cattaneo et al 2017, Zezza et al. 2017). L’argomento dovrà costituire il tema di successivi contributi a questo importante dibattito.
Riferimenti bibliografici
Amato, M., L. Fantacci, e G. Zezza (2017), «E se la moneta fiscale desse nuovo slancio?» Il Sole 24 Ore, 6 maggio.
Blanchard O. (2014) «Where danger lurks», VoxEu, 3 ottobre.
Bossone, B. «Italy’s Predicament is Europe’s Predicament», EconoMonitor, March 8.
Bossone B., M. Cattaneo, M. Costa e S. Sylos Labini (2017) «Uscire dalla crisi con la Moneta Fiscale», Economia & Politica, 20 aprile.
Fitoussi, J. P. e F. Saraceno (2013) «European Economic Governance: The Berlin-Washington Consensus», Cambridge Journal of Economics 37 (3): 479–496.
Modigliani, F, J-P Fitoussi, B Moro, D Snower, R Solow, A Steinherr, and P Sylos Labini (1998), «An Economists’ Manifesto on Unemployment in the European Union», BNL Quarterly Review 206, pp. 327-61.
Turner A. (2015) «The Case for Monetary Finance – An Essentially Political Issue», 16th The Jacques Polak Annual Research Conference, International Monetary Fund, Washington, DC, November 5–6.
Amato, M., L. Fantacci e G. Zezza (2017) «E se la moneta fiscale desse nuovo slancio?», Il Sole 24 Ore, 6 maggio.
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