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Dossier Cento giorni di inquietudine

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Cento giorni di inquietudine

La convenzione di valutare i primi 100 giorni di un leader nazionale risale a Napoleone, passando da Franklin Delano Roosevelt. Mentre i 100 giorni di Napoleone prima di Waterloo sono stati un profilo di alterigia, e i primi 100 giorni di FDR un ritratto della speranza, la presidenza di Donald Trump è stata così imprevedibile e inspiegabile che nessuna singola parola sembra coglierne appieno l’essenza.

Sono persino nate due grandi scuole di pensiero sulla presidenza Trump. Una vede un immaturo narcisista che, dopo aver incassato una serie di imbarazzanti sconfitte durante le prime settimane in carica, accetta con reticenza la formazione sul campo e adotta posizioni più convenzionali. In base a tale visione, Stephen Bannon, lo stratega numero uno della Casa Bianca, l’avatar dell’“Alt-right”, ossia della destra alternativa, continuerà ad essere messo da parte da figure quali Gary Cohn, direttore del Consiglio economico nazionale, James Mattis, segretario alla difesa e H.R. McMaster, consigliere per la sicurezza nazionale. Il dietrofront di Trump rispetto alla Nato (che aveva definito «obsoleta» durante la campagna) è analogamente rassicurante, come lo è l’influenza del genero di Trump, Jared Kushner (malgrado la sua inesperienza, la quasi totale assenza pubblica e la mancanza di qualsiasi risultato definitivo come consigliere della famiglia Trump).

Gli aderenti alla seconda scuola ritengono che l’iniziale presidenza di Trump sia di fatto puerile – o come la definiscefreudianamente Lucy Marcus della IE Business School «un’amministrazione dell’id», o dell’istinto. Sottolineano l’apparente incapacità di Trump di controllare i suoi ripetuti capricci via Twitter, che non fanno che innervosire i leader stranieri e i mercati globali, nonché la sua profonda ignoranza dei fatti di base. Le sue menzogne, fantasie, voltafaccia, a loro avviso, hanno lasciato i politici americani del tutto imprevedibili agli occhi di chiunque, compresi quelli di molti membri dell’amministrazione – forse persino del presidente stesso.

I commentatori di Project Syndicate – alcuni dei quali hanno prestato servizio nelle precedenti amministrazione americane o hanno interagito con i precedenti presidenti degli Stati Uniti – sono sempre stati ben consapevoli dei rischi emersi durante i primi 100 giorni di Trump e dei potenziali rischi. Complessivamente i loro punti di vista forniscono un quadro essenziale non solo dell’America dal giorno dell’insediamento, ma di un mondo profondamente turbato da Trump.

La rivalsa della realtà
La fantasiosa visione del mondo di Trump, secondo molti, ha iniziato a scontrarsi direttamente con la realtà nel momento del suo insediamento. «Niente sembra essere andato per il verso giusto – osserva Ian Buruma del Bard College – durante le prime 11 settimane della sua presidenza». I tribunali federali hanno annullato i suoi ordini esecutivi che imponevano il divieto di ingresso negli Stati Uniti ai cittadini provenienti da sei Paesi a maggioranza musulmana, compresi i rifugiati siriani. Il suo tentativo di abrogare l’Affordable Care Act del 2010 (“Obamacare”) è fallito clamorosamente. E quelle che Buruma benevolmente chiama «sospette relazioni con i russi» hanno costretto alle dimissioni il primo consigliere per la sicurezza nazionale, Michael Flynn. Anche quando il presidente «emette decreti, annuncia ordini inaspettati, invia tweet notturni – fa notare Jeffrey Sachs della Columbia University – i fatti, quelli reali, e non le sue versioni alternative, intervengono».

“Niente sembra essere andato per il verso giusto durante le prime 11 settimane della sua presidenza”

Ian Buruma, Bard College 

Per Barry Eichengreen dell’Università di Berkeley, ciò si è particolarmente palesato durante il primo incontro di persona fra Trump e il presidente cinese Xi Jinping. Dopo aver duramente criticato la Cina durante la campagna del 2016, «Trump ha trattato Xi con notevole deferenza» nel summit tenutosi all’inizio di questo mese, molto probabilmente perché ha capito – o gli è stato fatta capire – in che misura gli Usa dipendono dalla Cina. Come con la sua retorica sull’Obamacare, sul NAFTA e su tante altre questioni, «i superficiali slogan della campagna si sono scontrati con la dura realtà della vera politica», sostiene Eichengreen.

Di conseguenza, Ana Palacio, ex ministro degli Esteri spagnolo, trova alcune ragioni per essere ottimisti dopo i primi «vertiginosi mesi» dell’amministrazione Trump. Con la stella cadente di Bannon e quelle nascenti di McMaster e del segretario di Stato Rex Tillerson, gli “adulti”, a suo avviso, «sono tornati a comandare». Ciò nonostante, avverte che «non è tempo di autocompiacersi: l’ordine del mondo liberale è lungi dall’essere garantito».

(Dis)ordine esecutivo
Palacio teme che, con Trump alla Casa Bianca, «non c’è nessun cavaliere all’orizzonte pronto a prendere in mano le redini della situazione». Ma come Don Quixote, Trump sembra davvero sentirsi un cavaliere. E nel tentativo di salvare la sua ristretta base di sostenitori nella Rust belt dell’America e nel Paese del carbone, potrebbe ancora turbare lo status quo. In particolare, combattendo contro i mulini a vento a difesa dei combustibili fossili, potrebbe mettere a rischio l’intero pianeta.

«Ad eccezione del lancio di una guerra nucleare – scrive il filosofo dell’Università di Princeton Peter Singer – è difficile pensare a qualcosa che il presidente americano possa fare per pregiudicare più persone» come l’ordine esecutivo di Trump sull’«indipendenza energetica e sulla crescita economica». Quell’ordine, come fa notare Sachs, «annullerebbe le norme del Clean Power Plan delineate dall’Agenzia americana per la tutela ambientale (EPA), eliminerebbe gli standard di controllo delle emissioni di metano derivanti dalla produzione e dalla distribuzione di gas e petrolio e metterebbe fine all’uso regolamentato di un ’costo sociale del carbonio’ introdotto dall’EPA rispetto al danno ambientale provocato dall’emissione di una tonnellata aggiuntiva di diossido di carbonio».

Ma con questo e molto altro ancora nell’agenda di Trump, la realtà potrebbe presto riaffermarsi. Innanzitutto, quando le azioni di Trump sul clima sono inevitabilmente «impugnate dinanzi alle autorità giudiziarie», secondo Sachs, l’amministrazione «quasi certamente perderà», perché gli standard sulle emissioni che intende abolire sono “tutelati dal Clean Air Act”. E come osserva Javier Solana, ex segretario generale della NATO e alto rappresentante Ue, «le priorità politiche di Trump si scontreranno inevitabilmente con quelle degli stati come la California, che hanno preso l’iniziativa di incoraggiare l’innovazione tecnologica focalizzata sul clima».

Inoltre, Trump dovrà rispondere all’imprenditoria che spesso dichiara di rappresentare, soprattutto se mette a rischio gli impegni americani previsti dall’accordo di Parigi sul clima. Un decennio fa, «le imprese avrebbero accolto favorevolmente questo tipo di politiche ambientali regressive», scrive Mark Malloch Brown, presidente della Business and Sustainable Development Commission. Ma le cose sono cambiate. «Le strategie aziendali – fa notare Malloch Brown – si stanno sempre più allineando» a modelli di business più sostenibili.

Anche le altre azioni esecutive di Trump hanno provocato un’ampia opposizione. Da quando Trump ha sottoscritto il suo primo e infausto divieto di viaggio «molti sindaci democratici hanno riaffermato lo stato di asilo delle loro città per gli immigrati senza permesso di soggiorno» osserva l’ex segretario messicano degli Affari esteri Jorge Castañeda. «E coloro che condannano le azioni dell’amministrazione di Trump includono 500 rettori universitari e molte organizzazioni religiose, comprese la Chiesa Cattolica».

Oltraggio al Congresso
Mentre Trump si affidava fortemente agli ordini esecutivi, la sua agenda legislativa non andava da nessuna parte. Come osserva Simon Johnson del MIT Sloan, quando si tratta di legislazione, l’«estremismo» che caratterizza le azioni esecutive di Trump (comprese le nomine nel settore giudiziario) «non funzionerà, a causa della necessità di attirare alcuni repubblicani relativamente centristi». Ma Trump non solo non è riuscito a comprendere le dinamiche politiche all’interno del suo stesso partito – una mancanza che è stata perlopiù ovvia, come dimostra Johnson, nel rinnovato tentativo di marzo di «abrogare e sostituire» l’Obamacare. Sia in politica che nell’elaborazione di politiche, secondo Steven Nadler dell’Università del Wisconsin-Madison, Trump «ignora la propria ignoranza».

Per questa ragione, Nouriel Roubini dell’Università di New York si aspetta che i tentativi di Trump e dei repubblicani al Congresso di riformare il codice tributario americano condividano la stessa sorte dell’“American Health Care Act” ancora in vigore. Roubini descrive molte delle idee della riforma originariamente ventilate da Trump come «perse in partenza» anche in un congresso controllato dai repubblicani. La proposta di una “border adjustment tax” (una tassa di frontiera) o l’alternativa “value-added tax” (imposta sul valore aggiunto) non riescono a ricevere «abbastanza supporto neanche tra i repubblicani».

“Coloro che condannano le azioni dell’amministrazione di Trump includono 500 rettori universitari e molte organizzazioni religiose, comprese la Chiesa Cattolica”

Jorge Castaneda, ex segretario agli Affari esteri del Messico 

Nelle ultime settimane, l’amministrazione Trump, evidentemente disperata a mostrare di aver conseguito qualche risultato nei primi 100 giorni, si è affrettata a emettere una proposta di una pagina per tagliare l’aliquota dell’imposta sulle società al 15% e ridurre il numero di scaglioni di aliquota per le persone fisiche a solo tre. Ma questo piano sarà difficile da vendere ai conservatori fiscali nel Congresso. «Anche tagliare l’aliquota dell’imposta sulle imprese dal 35% al 30% sarebbe difficile», dichiara Roubini, perché richiederebbe una base imponibile più ampia, «costringendo interi settori – come il farmaceutico e il tecnologico – che attualmente pagano meno tasse a pagarne di più». D’altro canto, se Trump e i repubblicani al Congresso facessero «esplodere il debito» tagliando le tasse in modo trasversale senza compensare la perdita di entrate, «la risposta dei mercati potrebbe far crollare l’economia Usa». Infine, Roubini si aspetta che nel caso dei repubblicani «il ruggente leone della riforma tributaria si riduca con tutta probabilità a un topo che squittisce».

Ma l’economia americana sta già facendo i conti con i rischi derivanti dai passati fallimenti di Trump. «Decidendo di iniziare con la riforma sanitaria – una questione profondamente complicata e fortemente controversa nella politica americana», osserva Mohamed El-Erian, capo consigliere economico di Allianz, Trump «rischia di perdere parte della buona volontà politica che potrebbe servire a realizzare il tipo di riforma fiscale che si aspettano i mercati». A meno che Trump non «riesca a lavorare bene con un Congresso collaborativo per tradurre le intenzioni dei mercati in azioni ben calibrate» in grado di ripristinare la fiducia dei mercati, «il motore Usa potrebbe perdere colpi, causando sofferenza all’intera economica globale». El-Erian è particolarmente preoccupato che Trump possa peggiorare le cose implementando le misure protezionistiche promesse durante la campagna.

Ovviamente, Trump dovrebbe consultare il Congresso se intendesse seriamente rivedere gli esistenti accordi commerciali come il NAFTA. E questo rimane un grande “se”. Ci sono state alcune misure simboliche, come un dazio sul legname canadese in prossimità dei 100 giorni. Ma Trump ha rapidamente deciso di non ritirarsi più dal NAFTA. «Sinora», fa notare Daniel Gros del Center for European Policy Studies, l’amministrazione «non ha intrapreso alcuna azione che suggerisse l’avvicinarsi di una nuova era di protezionismo». Di fatto, «Trump ha potuto semplicemente decidere di abbandonare la sua promessa di rinegoziare il NAFTA», afferma Jeffrey Frankel dell’Università di Harvard. «Dopo tutto, ha mancato molti altri impegni presi durante la campagna, inclusa (fortunatamente) la ripetuta promessa di etichettare la Cina manipolatrice valutaria ’il primo giorno’ di amministrazione».

Allo stesso modo, Laura Tyson dell’Università di Berkeley si aspetta che il NAFTA sia l’ennesimo test della realtà per Trump. Se la sua amministrazione tenterà davvero di mantenere le promesse fatte in campagna, lui e i suoi consiglieri, secondo Tyson, dovranno «riconoscere alcuni fatti di base». In particolare, non c’è alcuno straccio di dichiarazione di Trump sul fatto che il NAFTA «abbia portato a ’terribili perdite’in termini di produzione del manifatturiero e di posti di lavoro». Anzi, con così tante catene di fornitura americane che attraversano i confini messicani e canadesi, il NAFTA di fatto sostiene i posti di lavoro Usa, «creando un mercato per le esportazioni Usa, fornendo beni a prezzi competitivi per la produzione Usa e abbassando i prezzi dei beni per i consumatori statunitensi, che possono così spendere di più su altri beni e servizi prodotti negli Stati Uniti».

Parlare a sproposito
Per quanto riguarda il fronte domestico, i primi 100 giorni di Trump sulla scena mondiale sono stati segnati da un mix di risolutezza ed esitazione, intervallata, secondo l’ex primo ministro svedese Carl Bildt, da una «serie di dietrofront in politica estera». Dopo aver ammonito il presidente Barack Obama nel 2013 a «restar fuori dalla Siria», osserva Bildt, Trump improvvisamente «lancia un attacco missilistico su una delle basi aeree del presidente siriano Bashar al-Assad». Inoltre, «suggerisce di intraprendere un’azione militare contro la Corea del Nord», e come a dare manforte alla minaccia, «sgancia la ’madre di tutte le bombe’ su un ridotto Stato Islamico nell’Afghanistan orientale».

Bildt teme che il ricorso di Trump ai mezzi militari, come la bomba Massive Ordnance Air Blast (MOAB) utilizzata nelle montagne di Spin Ghar in Afghanistan, possa solo inasprire le crisi esistenti. Buruma va oltre: Trump «non ha nessuna strategia, né in Medio Oriente, né in Asia, dove il dittatore della Corea del Nord, Kim Jong-un, sta facendo del suo meglio per attirare l’attenzione del mondo e provocare» gli Stati Uniti con i suoi test nucleari e lanci missilistici. Palacio, dal canto suo, descrive le recenti azioni di Trump come «l’equivalente della memoria muscolare in politica estera, con i giocatori che utilizzano tattiche familiari, senza avere un chiaro obiettivo in mente».

«Certamente – osserva Brahma Chellaney, uno stratega del Center for Policy Research di New Delhi – alcune inversioni di rotta [di politica] di Trump lo hanno portato vicino alle tradizionali posizioni Usa». Ma in Asia, «dove deve far fronte a una serie sfide economiche, politiche e di sicurezza – afferma Chellaney – le inversioni di rotta di Trump hanno solo inasprito la volatilità regionale. Con così tante questioni politiche che minacciano di scatenare conflitti violenti, l’ultima cosa di cui hanno bisogno i leader dell’Asia è un altro jolly strategico».

“Con così tante questioni politiche che minacciano di scatenare conflitti violenti, l’ultima cosa di cui hanno bisogno i leader dell’Asia è un altro jolly strategico”

Brahma Chellaney, Center for policy research 

Per Robert Skidelsky dell’Università di Warwick, l’approccio impulsivo che Chellaney denuncia rappresenta l’opposto di una «prudente politica estera» in cui i mezzi sono scelti perché servono finalità stabilite. Di fatto, la decisione del Dipartimento della Difesa Usa di sganciare una bomba MOAB è stata, secondo il professore di diritto dell’Università di New York Stephen Holmes, «un esempio per lasciare che i mezzi militari determinino i fini politici». Per Holmes, le recenti azioni dell’amministrazione Trump sono reminiscenze della disastrosa risposta dell’amministrazione George W. Bush agli attacchi dell’11 settembre 2001, culminata con l’invasione dell’Iraq. Allora come oggi, l’esercito ha avuto mano libera nel cercare un «campo di battaglia dove potesse pavoneggiarsi».

Mentre però la delega di decisioni strategiche da parte di Trump all’esercito Usa suggerisce di fatto una mancanza di coerenza strategica, il marketing resta uno dei maggiori punti forza del presidente. Holmes fa notare che, anche se la bomba MOAB non ha possibilità di dissuadere le reti estremiste decentralizzate, il suo uso ha colpito nel segno i media americani, soprattutto le reti via cavo di notizie che «non resistono a strombazzare le insulse invettive e le assurde menzogne di Trump». In modo analogo, Buruma non vede alcuna coincidenza nel fatto che «Trump ha ordinato un attacco di 59 missili Tomahawk su una base aerea siriana» proprio mentre i suoi «livelli di consenso registravano il 35%, il livello più basso mai registrato prima da un nuovo presidente».

Decifrare il trumpismo
La relazione di Trump con i media, e con la verità stessa, potrebbe fare più chiarezza sui lavori interni della sua presidenza di quanto potrebbe fare l’inventario delle sue oscillazioni politiche. Come ci ricorda Buruma, Trump è stato a lungo «padrone di un’arte particolare: l’auto-promozione attraverso la manipolazione dei media tradizionali e dei social media». Alla fine della giornata, il suo «obiettivo, come star dei reality show, promotore del suo brand e politico è coerente: essere riconosciuto come l’uomo più grande, più forte, più potente e più amato del mondo».

L’aver perso il voto popolare di un margine significativo è stato un duro colpo. Trump ha dovuto governare come una sorta di usurpatore. Ma, diversamente da Bush nel 2001, fa notare Joseph Nye di Harvard, Trump non si è spostato verso «il centro politico per attirare altro supporto». Anzi, «proclama di aver vinto al voto popolare e, agendo come se di fatto l’avesso vinto, piace alla sua base elettorale».

Nella visione di Nye, Trump conosce il suo pubblico, e non dovrebbe essere sottostimato come comunicatore. «Ciò che offende i commentatori nei media e nelle accademie non disturba i sostenitori [di Trump]», osserva. In quanto veterano di reality show, il presidente ha imparato che «la chiave del successo è monopolizzare l’attenzione di chi ti guarda, e per farlo servono dichiarazioni estreme, senza preoccuparsi troppo della verità».

Uno degli esempi più eclatanti durante i primi 100 giorni della nuova amministrazione è arrivato quando Trump, contro le prove delle sue stesse agenzie, ha accusato Obama di aver fatto spiare i telefoni della Trump Tower durante la campagna del 2016. Nina Khrushcheva della New School non è certamente l’unica a ipotizzare che Trump prenda le sue informazioni da «Fox News, blog razzista dell’alt-right e dalle pazze sfuriate dei talk radio», invece che «da professionisti del Dipartimento di Stato e dei servizi di intelligence e dell’esercito». Il risultato, afferma Khrushcheva, è «una forma di politica vudù: la regola basata sui ’fatti alternativi’ e su teorie infondate e non testabili che lanciano il proprio tipo di incantesimo sui cittadini che faticano a comprendere un mondo e un’economia globalizzati da cui si sentono alienati».

Tutto ciò sottolinea una prospettiva allarmante. Anche se Trump stesso si preoccupa unicamente dell’auto-promozione, la sua «impulsività è roba da incubo», scrive Skidelsky, «non solo perché lo rende manipolabile da chi vanta agende più ponderate, ma anche per la quantità di giochi mortali di cui dispone». Di parere simile, Mark Leonard del Consiglio europeo sulle relazioni estere avverte che, «il fatto che Trump non sia un ideologo non significa che non possa essere il canale di una nuova ideologia».

“Il fatto che Trump non sia un ideologo non significa che non possa essere il canale di una nuova ideologia”

Mark Leonard, Consiglio europeo sulle relazioni estere 

Leonard intravede un possibile parallelismo con Margaret Thatcher nella Gran Bretagna degli anni Ottanta. Sicuramente, Trump «punta a spazzare via il consenso neoliberale dei mercati non regolamentati, la privatizzazione, il libero scambio e l’immigrazione» su cui si basava il thatcherismo. Il punto, spiega Leonard, è che la Thatcher, come Trump, non aveva bisogno di definire il suo progetto politico. «Doveva semplicemente attirare persone capaci di affinare l’ideologia e il programma politico che avrebbero poi portato il suo nome».

L’analisi di Leonard non è che un avvertimento per coloro che si sentono rincuorati dalla presunta perdita dello stato di grazia di Bannon all’interno dell’amministrazione. «Se gli oppositori progressisti di Trump non riusciranno a impegnarsi seriamente con le forze riflesse e rafforzate dalla vittoria di Trump», Leonard giunge alla conclusione che, «neanche l’impeachment sarà sufficiente a rimettere il genio trumpiano nella bottiglia».

Trump International
È un genio che ha famiglia in Europa. Chris Patten, cancelliere dell’Università di Oxford, vede anche molti altri Paesi – compresi Regno Unito, Ungheria e Polonia – «muoversi verso una diversa tipologia di politica», laddove il nazionalismo e il populismo diventano veicoli di «imminente autoritarismo». Nel Regno Unito, il premier Theresa May è diventata compagna di viaggio di Trump, mentre persegue una “hard Brexit” (quella che May chiama una «clean break» dall’unione doganale e dal mercato unico europeo). Eppure, come ci ricorda Patten, non c’è alcun mandato popolare per questo. «Un mero 52% degli elettori britannici ha preso la decisione di uscire dall’Ue lo scorso giugno», fa notare. Fatto più importante, «per che cosa avessero esattamente votato resta un mistero».

Le rapide elezioni indette dalla May per l’8 giugno potrebbero conferirle il mandato politico di cui non dispone da quando è subentrata a David Cameron, il cui governo presentò le dimissioni immediatamente dopo il referendum sulla Brexit dello scorso anno. I sondaggi d’opinione danno il Partito conservatore in testain Parlamento. Ma Philippe Legrain dello European Institute della London School of Economics fa notare che la May aveva ripetutamente promesso di non indire elezioni prima della data regolarmente programmata nel 2020. Di fatto, «disattendendo cinicamente la sua promessa – secondo Legrain – potrebbe negativamente erodere la fiducia che il pubblico ha riposto in lei». E la tempistica della May è curiosa: le elezioni si terranno dopo che lei avrà già formalmente avviato il processo di uscita del Regno Unito dall’Ue a marzo, ma prima che gli elettori conoscano i termini del divorzio stesso.

Per come considera il futuro post-Ue del Regno Unito, la May si è avvicinata non solo a Trump, ma anche al presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Nel suo tentativo (ben più radicale) di salvaguardare il suo potere, Erdogan ha recentemente dichiarato la vittoria in un referendum indetto per sostituire il sistema parlamentare della Turchia con quello che Soli Özel dell’Università di Kadir Has descrive come «un sistema presidenziale alla turca che è fatto su misura» per Erdogan stesso.

Özel fa notare che, «malgrado l’alta posta in gioco del referendum – l’abbandono del vecchio quadro politico della Repubblica turca – non c’è stato alcun serio o intenso dibattito prima del voto». Il referendum è stato indetto dopo «una inesorabile campagna di offuscamento, travisamento e vilipendio», e in uno «stato di emergenza» che è in vigore dal tentato colpo di stato dello scorso luglio. Dopo il voto, Erdogan ha ricevuto una telefonata di congratulazioni da Trump. Ma «considerando come sia ora profondamente diviso il Paese – scrive Özel – la sua vittoria sul filo di lana potrebbe rivelarsi una vittoria pirrica».

Mentre Erdogan pregiudica rapidamente le possibilità della Turchia di aderire all’Ue, i Paesi già nel blocco stanno anche mettendo alla prova i propri valori fondamentali, sotto la leadership degli analoghi di Trump come il primo ministro ungherese Viktor Orbán e il leader de facto della Polonia, presidente del partito Diritto e Giustizia (PiS), Jaroslaw Kaczyński. Nel caso della Polonia, scrive Slawomir Sierakowski dell’Institute for Advanced Study di Varsavia, il PiS potrebbe occupare una pagina della storia di Erdogan. A seguito delle repressioni nel settore giudiziario e nei media, PiS sta «effettuando una riorganizzazione rivoluzionaria dell’esercito, un’opportunità che non si vedeva dall’imposizione del governo comunista». E anche Kaczyński ha turbato lo status quo a livello Ue, mettendo a rischio recentemente la candidatura del suo principale rivale politico, l’ex primo ministro polacco Donald Tusk, a un altro mandato come presidente del Consiglio europeo.

Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga che guida l’ALDE (Alleanza dei Liberali e dei Democratici per l’Europa) nel Parlamento europeo, descrive le misure che sta ora intraprendendo l’Ue contro il governo PiS. E Verhofstadt sostiene che «fino a quando non annullerà le sue politiche illiberali», la Polonia dovrà affrontare ulteriori misure per contenere i fondi Ue che riceve e i privilegi di cui gode grazie all’adesione all’Ue. «Infine», però, «solo il popolo polacco potrà decidere il destino del proprio Paese», conclude Verhofstadt, ed è ottimista sul fatto che i polacchi «scenderanno presto in piazza per opporsi all’orientamento del governo verso l’autoritarismo e per garantire un futuro più luminoso alla Polonia e al cuore dell’Europa».

Dopo 100 giorni di Trump, mantenere a vista quest’obiettivo potrebbe essere la chiave – non solo per gli americani – per navigare in sicurezza nei prossimi cento giorni che dovremo fronteggiare.

Traduzione di Simona Polverino

Copyright: Project Syndicate, 2017.

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