Ringrazio tutti coloro che hanno contribuito alla prima fase del dibattito, sia quelli che l’hanno fatto all’interno della mia rubrica seguendo le regole da me delineate, sia quelli che lo hanno fatto al di fuori. La principale conclusione è che l’euro è una scelta politica, non economica. Per questo sorprende che gli economisti siano spesso arruolati a difesa dell’euro in qualità di esperti, quando a difenderlo dovrebbero essere gli scienziati della politica.
Gli unici due argomenti puramente economici a favore dell’euro sono stati avanzati da Tarek Hassan: una moneta comune riduce la variabilità dei prezzi e riduce il rendimento dei titoli sovrani, perché li rende più liquidi. La dimensione quantitativa di questi effetti, però, è dubbia. A fronte di questi incerti benefici esistono costi elevati, specialmente per un Paese come l’Italia, con una struttura di prezzi e salari poco flessibili. Se le svalutazioni competitive non sono certo la soluzione ai nostri mali, la mancanza della flessibilità di cambio costringe il nostro Paese a ricorrere a deflazioni interne, che richiedono lunghi periodi di disoccupazione e recessione. Dal 2008 al 2013 la domanda interna in Italia è scesa del 16%, quanta recessione ancora dobbiamo subire per ritornare competitivi?
Data questa analisi, non sorprende che il consenso quasi unanime a favore dell’euro nasca da considerazioni politiche, come ha dichiarato Ignazio Angeloni, membro del Consiglio di Sorveglianza della Banca Centrale Europea. Le considerazioni politiche avanzate sono di due tipi. Da un lato hanno una motivazione idealistica: l’euro è il primo passo verso un’Europa unita, unico rimedio contro le guerre fratricide che hanno devastato l’Europa nella prima metà del XX secolo. L’obiettivo di evitare un’altra guerra ovviamente sovrasta qualsiasi mero calcolo economico. Ma la funzione pacifica dell’euro è predicata su due ipotesi: che essere più uniti prevenga la guerra e che l’euro ci renda più uniti. Entrambe queste ipotesi sono questionabili sia da un punto di vista teorico che (soprattutto) da un punto di vista empirico. Pensiamo veramente che gli italiani e i tedeschi si sentano più vicini oggi che vent’anni fa, quando l’euro fu introdotto? Se leggiamo le pagine di questo giornale viene da dubitarne.
La maggior parte degli accademici, da Cochrane in poi, sostengono l’euro per un diverso motivo politico: la natura “ortopedica” della moneta comune. L’euro è un busto che forza l’Italia a fare scelte di politica economica che altrimenti non farebbe. La necessità economica di un “busto istituzionale” non è nuova. Da tempo gli economisti hanno capito che dei vincoli possono ovviare all’incoerenza temporale (time inconsistency) della politica monetaria (tutti vorrebbero avere bassa inflazione, ma nel breve periodo è politicamente conveniente stimolare l’economia, con l’effetto di aumentare l’inflazione). Ma questi vincoli possono essere interni. L’Inghilterra, che negli anni Settanta aveva sofferto di elevata inflazione, ha risolto il problema senza ricorrere all’euro.
I fautori della visione ortopedica sostengono (implicitamente o esplicitamente) che non siamo l’Inghilterra, né possiamo aspirare a diventarlo. La nostra democrazia è talmente inefficiente che ha bisogno di un “busto”, imposto dall’esterno. È una tesi plausibile ma in economia l’analisi delle istituzioni è solo ai primordi. Su questo punto sarebbe più utile sentire gli scienziati della politica. Dal punto di vista empirico posso dire che questo fu esattamente il motivo per cui l’Argentina scelse di ancorarsi al dollaro all’inizio degli anni 90. Non finì bene.
Non essendo uno scienziato della politica, mi limito a esprimere una mia duplice paura. Primo, che il busto non aiuti a rafforzare i muscoli, ma li indebolisca, come vent’anni di berlusconismo sembrano dimostrare. Secondo, il rischio che – se il busto diventa troppo doloroso – il paziente si ribelli, strappandoselo di dosso violentemente. Questo sarebbe il peggiore dei mondi possibili: da un lato i danni dello strappo violento, dall’altro la difficoltà di vivere senza busto e con i muscoli indeboliti. Il paziente Italia rischierebbe di crollare al suolo. La mia più grande preoccupazione è proprio evitare questo disastro.
Dal dibattito è emerso anche che non basta dichiarare che l’euro è irreversibile. Per l’Italia esiste il rischio di essere cacciati fuori (come stava per succedere alla Grecia nel 2015) o di essere costretti a uscire nel mezzo di una severa crisi economica o politica. Per questo, indipendentemente dalle nostre opinioni politiche sull’euro, è importante capire non solo quali siano i costi di un’uscita dell’Italia dall’euro, ma come questi costi possano differire in funzione di come avviene l’uscita. I prossimi interventi saranno dedicati a questo tema. Su questo è molto importante capire le questioni legali, per questo aprirà la serie Hal Scott, professore alla Harvard Law School.
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