Commenti

Strage di Capaci, errori e veleni affossano la rivolta delle coscienze

  • Abbonati
  • Accedi
25 anni dopo

Strage di Capaci, errori e veleni affossano la rivolta delle coscienze

Il 3 aprile 2017 un lungo lancio dell'agenzia di stampa Ansa batte questa notizia: «Si è concluso con 11 assoluzioni e cinque condanne il processo, celebrato in abbreviato dal gup Omar Modica, nei confronti di capimafia, gregari ed estortori dei clan mafiosi di Bagheria, Villabate, Ficarazzi, Casteldaccia e Altavilla Milicia. Molte le assoluzioni eccellenti tra cui quelle dei boss Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto Onofrio Morreale. Il processo nasce da un'inchiesta della Dda di Palermo che, nel 2014, portò al fermo di 31 persone accusate di mafia, estorsione e favoreggiamento. I pm, nel corso della requisitoria, avevano chiesto condanne per 150 anni di carcere.

Tano Grasso: «Se tutto è antimafia, niente è antimafia»

Francesco Centineo e Silvestro Girgenti sono stati condannati a 6 anni e 8 mesi, Giacinto Di Salvo a 9 anni, Francesco Mineo a 7 anni e un mese e Pietro Liga a 6 anni 8 mesi. Tutti dovranno risarcire i danni riconosciuti, come provvisionale immediatamente esecutiva, alle parti civili costituite: i Comuni di Santa Flavia, Ficarazzi, Altavilla e Bagheria, alle vittime del racket e all'associazione antiracket Libero Futuro. L'indagine, alla quale hanno contribuito diverse vittime del racket, svelò che a pagare il pizzo al clan di Bagheria era anche una casa di riposo. Nella lista degli estortori c'erano anche agenzie di scommesse, autofficine, commercianti di pesce e 28 imprenditori edili. Gli assolti sono Salvatore Lauricella, Giovanni Mezzatesta, Umberto Guagliardo, Onofrio Morreale, Giacinto Tutino, Andrea Carbone, Nicola Eucaliptus, Giuseppe Scaduto, Giovanni Trapani, Gioacchino Mineo e Francesco Lombardo».
Ma c'è un ulteriore elemento in questa vicenda che il lancio di agenzia svela. «I costi del procedimento penale – si legge infatti – dovranno essere pagati dai figli dell'uomo che ha denunciato il pizzo e dalle associazioni che si sono costituite parte civile. Infatti l'imprenditore Giuseppe Toia aveva denunciato i presunti taglieggiatori. Il gup ha assolto il presunto estorsore. E ha condannato gli eredi dell'imprenditore a pagare le spese sostenute per il processo dall'imputato. Ai costi del procedimento dovranno partecipare anche le associazioni antiracket, pure costituitesi parte civile, e il Comune di Ficarazzi».

Un precedente che fa scuola
Tra le parti civili c'erano anche Addiopizzo, Sos Impresa Palermo, Confesercenti Palermo, la Fai (la Federazione delle associazioni antiracket e antiusura), l'associazione antiracket e antiusura “Coordinamento delle vittime della estorsione, dell'usura e della mafia”, Solidaria, Confindustria Palermo, Confcommercio, Libero Futuro, associazione antimafia e antiracket Libero Grassi, associazione antimafie e antiracket Paolo Borsellino e il Centro studio e iniziative culturali Pio La Torre.
Nei giorni seguenti tutti i giornali daranno conto di questa notizia che è destinata ad aprire, comunque, un vulnus nella lotta alla mafia. «Siamo molto amareggiati» dirà a caldo Tommaso Toia, il figlio dell'imprenditore. «Impugneremo e faremo valutare alla corte d'Appello la correttezza di questa decisione. Aspettiamo il deposito delle motivazioni ma passeranno almeno 5 o sei mesi. Questa sentenza è un errore del giudice Il problema, però, è di fondo. E' una vergogna che la lotta alla mafia diventi un mercimonio», dice al sole24ore.com Fausto Maria Amato, l'avvocato di Solidaria, Sos Impresa e Coordinamento delle vittime dell'estorsione, dell'usura, della mafia. «Dal punto di vista tecnico il giudice ha applicato i criteri validi nel processo civile, cioè quello della soccombenza – affermerà Giovanni Castronovo, legale di Salvatore Lauricella, tra gli assolti – ma dal punto di vista giurisprudenziale si tratta di una decisione inedita. Negli ultimi anni non si riscontrano decisioni di analogo tenore».
La decisione del giudice Modica arriva dopo la presa di posizione di altri giudici di cassare alcune parti civili nei processi di estorsione, i quali hanno sottolineato come non sia sufficiente uno «scopo sociale generico e astratto» ma senza ombra di dubbio questa sentenza si impone come un precedente per chi, assolto in un processo di mafia, vorrà rivalersi sulle parti civili.
Per il momento Addipizzo – una delle associazioni ritenute da molti tra le più importanti in Italia sul fronte antimafia – non molla ma raddoppia. E lo fa nonostante il fatto che questa storica associazione sia anch'essa attraversata da veleni e tentativi di delegittimazioni la cui portata è tutta da decifrare. Sembra proprio che, 25 anni dopo la stagione delle lenzuola bianche appese ai balconi di Palermo, niente e nessuno sul fronte della cosiddetta antimafia riesca ad uscire indenne da veleni, delegittimazioni e “mascariate”. Al netto dei tanti errori, da tutti, compiuti.
Il 3 maggio, a meno di un anno dalle indagini e dagli arresti scaturiti dalle denunce di una decina di commercianti di origine straniera, accompagnati già in fase di collaborazione da Addiopizzo, si è aperto il processo che vede imputati nove soggetti accusati di estorsione, rapina, violenza privata e minacce. Una storia senza precedenti, perché per la prima volta il fenomeno della denuncia collettiva vede coinvolti un cospicuo numero di migranti, che da tempo vive e lavora a Palermo e che si era rivolto all'associazione a seguito di una forte recrudescenza di violenze subite sul territorio.
L'importante sinergia tra alcuni commercianti bengalesi, Addiopizzo, la Squadra Mobile e la Procura di Palermo, ha permesso in tempi brevi di fermare diverse persone, alcune delle quali sono state poi scarcerate, che avevano seminato terrore nel centro storico di Palermo.
Nel processo, con le vittime e gli avvocati dell'associazione – Salvatore Caradonna, Maurizio Gemelli e Serena Romano - Addiopizzo si è costituita parte civile visto il lavoro svolto sul territorio nell'ambito dell'operazione Maqueda.
Il clima sociale è diverso da quello che il 26 maggio 1992, con un frenetico tam tam di telefonate, portò la Palermo onesta ad esporre sui balconi lenzuoli bianchi contagiando, con quella forma di pacifica protesta contro Cosa nostra, la Sicilia e l'Italia intera. Era l'indignazione appesa ai balconi contrapposta alla morte di Cosa nostra stesa sull'autostrada in quel di Capaci.
Il clima è cambiato e la colpa è anche di quella parte marcia e deviata dello Stato che ha ricominciato a soffiare i suoi venti di delegittimazione e isolamento sulla parte sana delle Istituzioni e della società, preludio necessario alle morti dell'anima (ancor prima che fisiche).
Il vento è cambiato e negli ultimi anni sono cresciuti anche i segnali di insofferenza verso la vita quotidiana dei magistrati che vivono blindati e che, per questo motivo, portano a qualche inevitabile sacrificio collettivo.

IL GRUPPO
Associazione di tipo mafioso, fatti reato (Fonte: II sem. 2013 - II sem. 2014 dati condolidati - Fonte StatDel ministero dell’Interno - Dipartimento della P.S.; I sem. 2015 - I sem. 2016 dati non consolidati - Fonte FastSDI - ministero dell’Interno - Dipartimento della P.S.

Si riaffaccia la tolleranza a metà
Il 3 maggio 2014 il pm palermitano Maurizio Agnello ricevette la lettera di un condomino, infilata nella sua cassetta postale, che si lamentava (a nome dei condomini tutti) delle misure di prevenzione prese a tutela della vita del magistrato, invitato a «comprare una casa altrove, magari nello stesso palazzo di qualche suo collega così da evitare un doppio disagio per tanta gente per bene…. Perché noi condomini dobbiamo avere limitazioni di posteggio proprio di fronte al portone e subire ogni giorno l'assalto dei vigili?».
Già, perché difendere la vita di un Servitore dello Stato? Se proprio non se ne può fare a meno, che si acquisti a Palermo un lotto edificabile per i soli magistrati antimafia e che lo si chiami, magari, “il ghetto della Giustizia” con sopra un bell’arco in metallo con su scritto: “La mafia rende liberi”.
Piccoli gesti che conducono alla delegittimazione dei Servitori dello Stato ancor prima che alla morte, come accadde a Giovanni Falcone che il 14 aprile 1985 lesse sul “Giornale di Sicilia” le lamentele di una residente in via Notarbartolo (dove abitava), che non sopportava le sirene che fungevano da colonna sonora all'imminente morte del magistrato: «Mi rivolgo al giornale, per chiedere perché non si costruiscono per questi “egregi signori” delle villette alla periferia della città…Sono una onesta cittadina che paga regolarmente le tasse… Vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene». Già, il problema di Palermo, come diceva Johnny Stecchino, era e forse resta ancora il “ciaffico”.

La memoria nei più giovani
Che il vento è cambiato lo capisci anche dalle reazioni dei più giovani, degli studenti, che pure partecipano attivamente in ogni ordine e grado, alle lezioni di legalità e che vivono con forza le testimonianze dei familiari delle vittime di Cosa nostra. Il 28 aprile, come ogni anno, il Centro studi Pio La Torre, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, ha reso noto i risultati di una ricerca tra 3.061 ragazzi che partecipano al Progetto educativo antimafia promosso dal Centro stesso, in occasione del 35° anniversario dell'uccisione di La Torre e Rosario Di Salvo.
La sfiducia degli intervistati nei confronti della classe politica è elevata ma a far notizia è che il 47.27% ritiene che la mafia sia ancora più forte dello Stato e solo il 29.80% considera possibile sconfiggerla definitivamente. «Non c'è differenza significativa tra i giovani del Centro-Nord e del Sud sulla percezione della corruzione delle classi dirigenti locali – sottolinea Vito Lo Monaco, presidente del Centro Pio La Torre – . La mafia è forte perché si infiltra nello Stato che è più forte delle mafie solo per un 13% dei giovani. Ma la stragrande maggioranza dei giovani, oltre il 90%, ripudia la mafia e ritiene che sia più forte il rapporto tra mafia e politica. I giovani non si rivolgeranno a un mafioso o a un politico per un lavoro, assimilando l'uno all'altro».
Capisci, però, che è ancora sulla formazione che bisogna puntare perché, come sosteneva Gesualdo Bufalino, la mafia non si sconfigge con l'Esercito ma con un esercito di insegnanti. Sul tema della fiducia, infatti, nella ricerca del Centro Pio La Torre, svetta quella sugli insegnanti (83%). Seguono magistrati, forze dell'ordine, giornalisti, sindacalisti e per ultimi (sfiducia sopra l'80%) i politici locali e nazionali.

La libertà di pensiero...
Che il clima è cambiato – al netto del processo sulla trattativa tra Stato e Cosa nostra – lo capisci anche da come si rafforzano concetti rispettabili e legittimi ma proprio per questo opinabili. Concetti e opinioni che la Commissione parlamentare sta registrando nell'ambito della sua inchiesta sulla degenerazione della cosiddetta “antimafia” e delle sue finte o presunte bandiere, ultimamente ammainate con grave scorno della civiltà e della democrazia. Il 1° dicembre 2016 è stato ascoltato Salvatore Lupo, professore ordinario di Storia contemporanea presso l'Università di Palermo. Il professore, con il suo collega giurista Giovanni Fiandaca, ha scritto il libro “La mafia non ha vinto – Il labirinto della trattativa” (Laterza).
In Commissione antimafia Lupo ha affermato che «molti di noi, forse tutti, abbiano usato il termine “guerra alla mafia”, ma trattasi evidentemente di un termine, come quasi sempre il termine guerra, fuori contesto, perché uno Stato non può fare guerra ai propri cittadini, bisogna essere Stalin o Hitler per fare guerra ai propri cittadini, lo Stato deve applicare le leggi. Lo stato di guerra per fortuna non è stato dichiarato e dunque il termine guerra non è opportuno, seppur giustificato da quelle circostanze, perché io faccio lo storico, quindi sono spesso sostanzialista, e gli eventi che urgono gli esseri umani e le nazioni spesso non possono essere frenati con un'opzione di principio, però la moltiplicazione di istituzioni, di magistrature speciali, di polizie speciali e di legislazioni speciali basate su una logica di guerra vera o presunta sarebbe tantomeno giustificata in quanto costoro si definissero società civile?».
Fin qui il ragionamento – opinabile e rispettabile – è di natura più filosofica che storica. Filosofia per filosofia si potrebbe obiettare che le guerre non dichiarate ufficialmente dallo Stato sono spesso quelle più lunghe e impegnative di quelle dichiarate con carte da bollo (gli anni bui del terrorismo, ad esempio, che sono tornati d'attualità con il pericolo di matrice islamista). Filosofia per filosofia si potrebbe obiettare che se la parola guerra non piace (le parole sono spesso convertibili in convenzioni dialettiche) si può usare la parola contrasto o contrapposizione, financo “muro contro muro”.
«Il punto è che la guerra, se c'è stata – ha affermato lo storico Lupo – è finita. La guerra è finita non perché nel nostro Paese non ci sia più la criminalità organizzata, magari, non perché la criminalità organizzata non abbia ancora il suo livello di arroganza e non riesca a imporsi, e neanche perché siano venuti a mancare i composti della mafia, ovvero il contatto tra criminalità, cattiva politica e cattivo business, elementi che ci sono ancora. La guerra non c'è perché quei caratteri non ci sono più: non ci sono i morti per le strade, il numero dei morti ammazzati in questo Paese è drasticamente diminuito, il Mezzogiorno sta nella media nazionale, in Sicilia si ammazza meno gente che in Lombardia, quindi quell'elemento della conflittualità inframafiosa non esiste più, non con questa forza, non con questo carattere fuori controllo. I delitti eccellenti, strada terribile percorsa da cosa nostra, non si vedono più, magistrati uccisi con esplosioni non ne abbiamo visti e Dio voglia che non ne vedremo, perché chiaramente non posso prevedere il futuro, però non ci sono elementi che indichino che si vada verso situazioni di questo genere, anzi ci sono elementi che indicano che non si va verso situazioni di questo genere, perché cosa nostra siciliana e cosa nostra americana, la sua gemellina, sono state pesantemente colpite dalle autorità, sollecitate da questo moto di opinione pubblica e di società civile».

SENZA VITA
Omicidi volontari commessi in Italia in ambito criminalità organizzata. (Fonte: D.C.P.C. - dati operativi)

...e la libertà di risposta
Le diverse opinioni sono il sale della democrazia e dunque i deputati Claudio Fava (Mdp) e Francesco Molinari (Gruppo Misto) provarono a ribattere. Fava disse: «Lei ha detto che la guerra è finita, sono d'accordo con lei: sul piano militare la guerra è finita, anche se a volte il fatto che non si ammazzi manifesta una capacità di controllo del territorio straordinaria, c'erano paesi siciliani in cui la mafia governava e non volava uno schiaffo, ma il punto è che la strategia terrorista ed eversiva dei corleonesi è stata sconfitta. Mi chiedo e le chiedo se la fattispecie mafiosa di questo tempo non rischi di essere molto più insidiosa, perché la modernità della mafia oggi mette in campo una categoria che un tempo non c'era, che è quella del consenso. Non credo che Riina o i suoi amici lavorassero sul consenso: lavoravano sull'intimidazione, sulla paura e sull'omertà. Se lei avesse parlato come noi con i procuratori della Repubblica di Torino, di Milano e delle procure emiliane, avrebbe saputo che la grande preoccupazione è il modo in cui attorno alla capacità della mafia di farsi impresa, di essere sostegno economico, garanzia nella corsa agli appalti, punto di riferimento sul territorio, si sta creando consenso, al punto che non c'è stato un solo imprenditore che abbia collaborato con l'inchiesta Infinito. I magistrati di Milano che hanno lavorato anche in Sicilia dicevano che è una contraddizione abbastanza ingombrante, perché hanno più collaborazione in Sicilia che a Milano».
Molinari aggiunse: «Lei non crede che la sua tesi secondo cui la guerra è finita non porterebbe a mettere in discussione anche l'armamentario che lo Stato democratico ha messo in piedi per contrastare la mafia e l'ha indotta a trasformarsi in qualcosa di diverso? Ritengo infatti che questo sia ancora essenziale, e mi riferisco soprattutto al 41 bis, che credo sia stato la chiave di volta di questa lotta».
Lupo rispose, tra le altre cose che «....la presidente Bindi bene ha capito il mio ragionamento: la mafia non è più quella di allora, non è detto che quella di ora sia meno pericolosa, è una sfida meno forte, però bisogna vedere quali patologie semina alla lunga, ma di sicuro non si potrà combattere con lo stesso sistema, anche perché un movimento che si irrigidisce e tende a istituzionalizzarsi come tutte le strutture che istituzionalizzano a sua volta pone dei problemi (...) Che la mafia come sistema economico funziona male, se funzionasse bene saremmo nei guai davvero: funziona male, perché in un tempo medio la selezione degli imprenditori avviene non al più capace ma al più scadente, le contabilità sono fasulle, le attività economiche sono di copertura, prevalgono gli elementi finanziari sugli elementi imprenditoriali. Questa è la mia idea, che può essere benissimo smentita, ma spero non lo sia. Questa è l'esperienza che abbiamo avuto finora. Da questo punto di vista ribadisco che il problema è che i bambini vadano a scuola, che la gente trovi lavoro, i problemi base sono questi, però ovviamente su questo tutti diranno che vogliono così, e comunque questa non è l'antimafia, perché altrimenti diamo un'interpretazione eccessiva».
Anche il prefetto Mario Mori il 27 gennaio 2017, intervenendo al programma “La Zanzara” su Radio24, rispose così alla domanda se la mafia fosse stata sconfitta: «Oggi la mafia è quasi sconfitta definitivamente. Sconfitta non dalla polizia e dai magistrati ma perché è venuta meno la società che la supportava. La mafia è una deviazione culturale, è stata sconfitta da una società che si è evoluta. E quella società che la teneva in piedi si è sgretolata».
Salvatore Borsellino il 17 febbraio su www.lintellettualedissidente.it che gli pose esattamente la stessa identica domanda dichiarò che «la mafia ha cambiato aspetto. Non è più rappresentata dai morti ammazzati per le strade, quelli che mi hanno fatto lasciare Palermo più di cinquant'anni fa, non è più così visibile. Resta però pericolosissima in quanto è diventata altro: finanza, accaparramento degli appalti, traffico dei rifiuti pericolosi. La mafia ha una capacità di trasformarsi grandissima e se la gente non si rende conto di questo allora davvero il pericolo è estremamente più concreto».
Il 22 febbraio, il questore di Palermo, Guido Nicolò Longo, appena nominato prefetto di Vibo Valentia ma negli anni Ottanta vice del capo della Squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, nel salutare i giornalisti disse: «Non dobbiamo pensare che la mafia è vinta. Si è trasformata, più soft, più subdola ma sul piano economico è sempre presente. C'è una mafia economica che distrugge l'economia sana e questo lo dobbiamo impedire».

Un duro colpo dopo l'altro
Palermo e la Sicilia tutta sono ancora vigilissimi e hanno ancora voglia di vivere l'impegno antimafia ma le recenti e continue “batoste” stanno mettendo a dura prova la voglia di quanto, giustamente, cercano àncore di salvezza e punti fermi con tanto di nomi e cognomi.
Sul numero dei “Siciliani Giovani”, marzo 2015 n. 24, la storica firma Riccardo Orioles – eterno punto di riferimento del giornalismo antimafia – scrisse un articolo titolato “Non vanno d'accordo antimafia e imprese”. Fulminante il sommario: “L'antimafia fasulla da quella vera: come si fa a distinguerle? Facile…”. Talmente facile, che Orioles scriverà che «è molto più facile prendere a interlocutori (finché non smascherati) i vari Montante e Helg che non gli Umberto Santino, i Pino Maniaci o i Siciliani. I primi hanno denari da mettere nei vari “rinnovamenti”, e i secondi no; i primi non minacciano in alcun modo l'assetto sociale “perbene”, e i secondi sì. Ma così va il mondo; e noi perdoniamo volentieri agli amici perbene quella che non è certo malafede ma solo disattenzione e pigrizia. Noi, all'antimafia dei simboli, preferiamo quella palpabile e concreta».
I riferimenti negativi erano ad Antonello Montante, ex presidente di Confindustria Sicilia, da quasi tre anni indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e a Roberto Helg, ex presidente della Camera di commercio di Palermo, condannato il 29 ottobre 2015 in rito abbreviato a 4 anni e 8 mesi per concussione (si attenderà l'esito dell'appello).
Sullo stesso numero, un'altra firma autorevolissima come quella di Salvo Vitale, compagno di impegno antimafia di Peppino Impastato, in un articolo titolato “Il giocattolo dell'antimafia” scrisse: «…A inasprire gli animi è stata la barbara esecuzione dei due cani di Pino Maniaci, trovati strangolati col fil di ferro, chiaro avvertimento mafioso. E tuttavia alcuni settori di Partinico, bersaglio degli strali di Maniaci, per vendicarsi ed estrinsecare la loro ostilità hanno messo in giro la voce che era stato lo stesso Maniaci ad assassinare i suoi due cani per farsi pubblicità e aumentare la sua audience. Non è la prima volta che questo accade: la macchina del fango ha coinvolto spesso Maniaci in una serie di altre maldicenze, secondo tutti i canoni praticati dalle società mafiose: isolare le persone scomode, togliere loro credibilità, additarle al pubblico ludibrio e, in ultima soluzione, eliminarle».
E dire che Orioles e Vitale nei loro servizi non poterono aggiungere un altro caso che sta scuotendo a distanza di quasi due anni il fronte della cosiddetta antimafia sociale: quello del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, che il 9 settembre 2015 venne indagata dalla Procura della Repubblica di Caltanissetta. Allo scopo di evitare il diffondersi di notizie inesatte – scrisse in una nota ufficiale la procura nissena – su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta, militari del Nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro in data 9 settembre 2015. Questi atti istruttori sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d'ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla Presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo nell'applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari».
Il 1° febbraio di quest'anno la Procura della Repubblica di Caltanissetta ha chiuso la prima tranche e ha spedito l'avviso di conclusione delle indagini all'ex presidente Saguto e ad altre 19 persone finite sotto accusa per la gestione di beni sequestrati alla mafia. Un giro vorticoso di consulenze, nomine e soldi sporcato, secondo il procuratore Amedeo Bertone e il sostituto Cristina Lucchini, da favori, episodi di corruzione e una raffica di falsi.

Facile sì ma a parole
Ebbene, tanto facile distinguere l'antimafia fasulla da quella vera, come sostiene Orioles, non deve essere (e difatti non è) se è vero che di li a pochi mesi dall'uscita del suo servizio, per la precisione il 22 aprile 2016, proprio Maniaci sarà indagato a Palermo per aver estorto compensi e favori a due sindaci in cambio di una linea editoriale più morbida nei loro confronti. In quell'ambito giudiziario, anche la storia del cane sarebbe da riscrivere. Certo, anche in questo caso, non entrano in campo accuse di vicinanza, contiguità o complicità con Cosa nostra ma è evidente che un altro simbolo dell'antimafia ha lasciato orfani siciliani e italiani tutti, ricordando sempre che vige la presunzione di non colpevolezza per ciascuno di loro, fino a eventuale condanna passata in giudicato. Discorso che vale ovviamente anche per Antonello Montante e Ivan Lo Bello, quest'ultimo ex vice presidente nazionale di Confindustria e rimasto invischiato nella vicenda che il 17 aprile 2016 ha portato la Procura di Potenza a indagare sullo scandalo petroli (posizione poi archiviata dalla Procura di Roma). Ciò non toglie che Confindustria Sicilia oggi, in attesa della parola fine ad alcune tormentate vicende, sia in una fase di profonda riflessione.

«Siamo abituati a far parlare i fatti – afferma al sole24ore.com il presidente di Assindustria Sicilia Giuseppe Catanzaro – e i fatti dicono che, nel 2005, quando ancora l'argomento era un tabù, partendo proprio da Caltanissetta con Antonello Montante e camminando sempre in stretta sinergia con le Istituzioni, tanti imprenditori di Confindustria hanno messo la faccia nella lotta al malaffare con l'unico obiettivo di concorrere affinché le imprese sane avessero l'opportunità di operare in un mercato normale. Abbiamo maturato sul campo esperienze sostenendo gli imprenditori vittime e accompagnandoli anche in Tribunale davanti agli imputati mafiosi. E questo è quello che continueremo a fare per mettere al centro del dibattito la necessità di un mercato avulso dal condizionamento mafioso. Questo serve alle nostre imprese. Avvertiamo il pericolo di un ritorno al passato quando erano normali il silenzio e l'omertà. Su questo speriamo che in tanti riflettano. Una cosa per quanto ci riguarda è certa: non abbiamo alcuna intenzione di tornare a una antica ‘normalità' fatta di silenzi e di omertà».
Parola a Tano Grasso e don Ciotti.
Tano Grasso, 59 anni, ex-commerciante, è stato presidente della prima associazione antiracket italiana costituita a Capo d'Orlando (Messina) nel 1990. È stato il fondatore e il presidente della Fai (Federazione antiracket italiana) e attualmente ne è presidente onorario. È stato deputato e componente della Commissione parlamentare antimafia dal 1992 al 1996 e ha ricoperto il ruolo di Commissario per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura dal 1999 al 2001. Neppure lui è stato risparmiato da critiche e veleni.
«In questi 25 anni – spiega al sole24ore.com – ci sono state degenerazioni ed è stato facile nascondersi dietro la parola antimafia ma c'è un metodo semplice per guardare oltre la facciata e le apparenze: andare a vedere i fatti e non le parole. E tra questi, oltre alla nostra associazione, c'è Libera» (per l'intervista integrale a Tano Grasso si veda il video).
Già, c'è Libera, fondata il 25 marzo 1995 da don Luigi Ciotti che al sole24ore.com dice che «in questi anni “antimafia” è diventata una parola sospetta, uno strumento usato spesso per dotarsi di una falsa credibilità, quando non un paravento per azioni illecite. Abbiamo scoperto che gli stessi mafiosi, in alcune circostanze, si sono presentati nel nome dell'antimafia. Ma l'antimafia è un fatto di coscienza, un impegno costruito e comprovato dai fatti, non una carta d'identità da esibire a seconda delle circostanze. Non possiamo permetterci queste ombre, queste ambiguità. Non ce lo permettono le tante realtà, laiche e di Chiesa, che s'impegnano per ridare speranza e opportunità in contesti anche molto difficili. Non ce lo permette il migliaio di vittime delle mafie, persone che sono state uccise per un ideale di giustizia e di democrazia che sta a noi realizzare».

Buon antimafia (dei fatti) a tutti nei giorni in cui la memoria del giudice Falcone diventa sempre più viva in milioni di italiani.
r.galullo@ilsole24ore.com

© Riproduzione riservata