Gentile dott. Galimberti,
vorrei conoscere il suo parere su un problema sociale, che ha impatti devastanti sulle finanze e sulla vita relazionale di tanti italiani. Si tratta del gioco d’azzardo, che in molti casi si configura come una vera e propria patologia.
Lei conosce sicuramente i dati sulla diffusione dei giochi in Italia; dati, in proporzione, superiori a quelli degli Stati Uniti, tenuto conto della diversa entità della popolazione. Esiste una normativa nazionale piuttosto blanda, ma che prevede almeno una distanza minima delle sale da gioco dai luoghi sensibili (scuole, chiese, punti di aggregazione giovanile ecc.); ma quanto viene applicata e quanti controlli si effettuano? Senza contare, poi, che giochi di qualunque tipo (dalle slot ai gratta-e-vinci e così via) sono a portata di mano in moltissimi esercizi pubblici e che le televisioni ci bombardano senza tregua con spot accattivanti sui “paradisi del gioco”.
Come si possono tutelare i cittadini, soprattutto i più giovani, in un panorama del genere? E quanti, e quanto alti, interessi economici sono dietro questa nuova industria?
Marta Didomenicantonio
Cara signora Marta, lei fa bene a preoccuparsi. Ho dovuto accorciare la sua lettera, e le faccio complimenti per la sua meritoria attività contro il flagello del gioco d’azzardo. Qual è la corretta posizione dei poteri pubblici di fronte a queste fenomeno?
Primo, non ci si può illudere di poterlo estirpare. La pervasività di questo fenomeno (anche in un Paese tranquillo come l’Australia, dove vivo, il gioco d’azzardo è un grave problema sociale) indica che la voglia di scommettere e l’illusione del facile guadagno sono iscritte nel Dna dell’essere umano. Una lotta senza quartiere non farebbe altro che spingere bische, bingo e macchinette nella clandestinità, o siti di scommesse in uno spazio cibernetico incontrollato e incontrollabile.
“Se non potete batterli, unitevi a loro”, recita un antico detto. E in questo caso “unitevi a loro” si declina in una presenza regolatoria dello Stato in questo triste e delicato campo. Si tratta di inoltrarsi lungo un crinale sottile, dove da una parte c’è l’esigenza di non spingere il gioco nella clandestinità, dall’altra c’è la tutela dei cittadini di fronte a una minaccia che non è esagerato equiparare alla droga. Forse il primo intervento statale in questa materia ci fu nell’Inghilterra del 1694, quando un prestito a 16 anni per la corona inglese fu organizzato così: ogni obbligazione costava 10 sterline e rendeva il 10 per cento; inoltre – qui v’era l’esca dell’azzardo, destinata a sormontare la ritrosia di un pubblico diffidente nei confronti di debitori della real casa – dava la possibilità di vincere dei bei soldi: 40mila sterline erano destinate a un generoso “montepremi”. Ma queste forme di azzardo, così come i vari biglietti della lotteria, non creano dipendenza. Sono invece le macchinette e magari i bingo che sono pericolosi. Qui si tratta di dare con prudenza i permessi, di far rispettere quelle normative di cui lei giustamente lamenta la mancata applicazione, e, soprattutto, di decidere cosa fare con i soldi che lo Stato riscuote da queste licenze. Al “male sociale” bisogna opporre un “bene sociale”: cioè a dire, destinare quei proventi a iniziative di informazione, di educazione e di ’riabilitazione’ nei confronti di quanti potrebbero praticare, o praticano o sono travolti dal gioco d’azzardo; o, in ogni caso, usare di questi soldi “contaminati” che lo Stato riscuote per scopi di sostegno e promozione sociale.
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