Come si è arrivati a questo? È ciò che si chiede gran parte del mondo, e la quasi totalità dell’élite francese, riguardo della seconda tornata delle presidenziali in Francia. Charles de Gaulle incluse il ballottaggio nella costituzione della V Repubblica per costringere i francesi a scegliere in modo responsabile – qualcosa che a suo avviso non avrebbero mai fatto senza una spinta. Eppure la scelta quest’anno è ricaduta nuovamente su Marine Le Pen, erede delle peggiori tradizioni francesi – quella del collaborazionista Vichy France – e sul 39enne Emmanuel Macron, che non ha mai ricoperto cariche elettive ed è stato solo per un breve periodo ministro al governo.
Alcuni attribuiscono la colpa alla sclerotica economia della Francia per la ribellione degli elettori contro i candidati dell’establishment. Altri accusano l’Unione europea per la sua apparente indifferenza e incompetenza. Ma anche l’élite francese, forse una delle più viziate e ritirate élite occidentali di oggi, ha la sua parte di responsabilità.
Una formazione gallica
Se il Regno Unito conta sulla PPE di Oxford (acronimo di Philosophy, Politics and Economy, vale a dire Filosofia, Politica ed Economia), la «laurea che governa la Gran Bretagna», come l’ha recentemente definita il Guardian, anche i francesi, sono in gran parte governati da tre lettere: ENA. Esattamente come la PPE accomuna i premier britannici come Harold Wilson, Edward Heath e David Cameron, e i leader dell’opposizione come Hugh Gaitskell e Ed Miliband, l’École nationale d’administration compare sul curriculum dei presidenti francesi Valéry Giscard d’Estaing, Jacques Chirac e François Hollande, dei primi ministri Édouard Balladur, Michel Rocard, Lionel Jospin, Alain Juppé, Laurent Fabius e Dominique de Villepin, e di alti esponenti politici come Ségolène Royale e lo stesso Macron.
Vi sono, di fatto, impressionanti parallelismi tra PPE ed ENA. Entrambi hanno avuto esordi radicali, radicati nel desiderio di rompere con il passato. Quando la PPE, la più antica dei due, fu istituita all’Università di Oxford nel 1921, l’idea era quella di offrire un corso nuovo ed entusiasmante che trascendesse i limiti disciplinari.
Lo scopo dell’ENA, fondata nella debole e scoraggiata Francia del 1945, era quello di formare una classe elitaria di dirigenti che guidassero la ricostruzione post-bellica del Paese. Centralizzando gli esami che misuravano l’ingresso nelle più alte cariche della burocrazia francese, l’ENA era considerata come una netta frattura con il nepotismo cui precedentemente si affidava per la selezione delle élite. La meritocrazia democratizzava l’accesso.
Sia PPE che ENA rappresentavano tentativi volti a migliorare il governo, ma entrambi sono diventati sinonimo di un metodo elitario e tecnocratico di governo che ha perso il contatto con gli interessi e le necessità dei cittadini. Le critiche rivolte alle due istituzioni sono molto simili: l’ampia offerta di materie studiate incoraggia una conoscenza superficiale e dilettantistica di molte materie, e una superficiale abilità di calcolo, con una profonda conoscenza del nulla.
Inoltre, le pressioni del curriculum significano che il ripasso dell’ultimo momento e l’improvvisazione sono la norma. Il pensiero informato e creativo presto cede il passo alla conformità intellettuale. E tutto ciò alimenta il senso che sia PPE che ENA riproducano semplicemente le élite che li hanno preceduti – perché, alla fine, il loro ruolo è cementare e conferire dignità alle strutture di potere delle rispettive società.
Che non vuol dire che PPE ed ENA siano stati appannaggio dei politici conservatori. Nel Regno Unito, il governo di Tony Blair ha visto la forte presenza di laureati in PPE, e il partito dei laburisti, quando è stato al governo, è stato spesso dipinto come «l’ala governante del corso di PPE». In Francia, sia François Mitterrand che Hollande hanno riempito i governi di énarques, ossia di ex allievi dell’Ecole nationale d’administration. Quando Hollande vinse le primarie del Partito socialista nel 2011, sconfisse il collega énarque Martine Aubry al secondo turno.
La competizione tra énarques non si è, ovviamente, limitata ai Socialisti. Le presidenziali del 2002, in cui il padre di Marine Le Pen e fondatore del Front National Jean-Marie riuscì a passare al secondo turno per la prima volta nella storia del partito, inizialmente sembravano opporre l’énarque socialista Jospin all’énarque conservatore Chirac. In ogni caso, ha vinto un énarque: Chirac sconfisse Le Pen, ottenendo oltre l’80% dei voti – una vittoria schiacciante che è improbabile riesca a replicare l’énarque di quest’anno, Macron.
L’élite dell’élite
Per comprendere l’impatto dell’ENA sulle recenti generazioni della politica francese, prendiamo in considerazione questo: dagli anni 60, tra un terzo e la metà del governo sono énarques, anche se solo l’1% degli énarques intraprende carriere politiche. La grande maggioranza lavora nell’amministrazione pubblica, in linea con l’originale mission della scuola. Alcuni passano alla carriera internazionale: sia Pascal Lamy, ex capo della World Trade Organization, e Jean-Claude Trichet, ex presidente della Banca centrale europea, sono ex allievi dell’ENA.
Inoltre, gli énarques occupano gli alti vertici delle imprese francesi – dove, in base a un recente studio condotto dalla stessa scuola, circa il 22% ritorna al settore pubblico. Hanno guidato, o sono attualmente a capo delle maggiori società francesi, Air France, BNP, Renault, Carrefour, AXA, SNCF, Orange e FNAC, solo per citarne alcune. Scivolano senza fatica dall’amministrazione all’imprenditoria – e vice versa – in quella che i francesi chiamano pantouflage, l’equivalente dalla revolving door tra Wall Street e Washington.
Diversamente dalla PPE, l’ENA non produce giornalisti, sebbene i suoi studenti spesso li conoscano bene, avendo studiato insieme precedentemente a Scienze Politiche – un’altra delle Grandes Écoles d’élite della Francia. Ciò sottolinea un’altra importante differenza tra la PPE e l’ENA: la prima è una laurea di primo livello, la seconda un master. Il numero di posti all’ENA è quindi nettamente inferiore. Nel 2016 la PPE contava 280 posti per un corso triennale. L’ENA accetta tra 80 e 100 studenti l’anno per il suo programma biennale – un numero che è in diminuzione dall’inizio degli anni 2000, quando offriva oltre 150 posti. Eppure, malgrado l’esiguo numero di accesso, gli énarques comprendono una percentuale straordinariamente sproporzionata di alti esponenti politici, funzionari pubblici e imprenditori francesi. Quello che l’ENA produce, in sintesi, è la classe politica francese.
Le regole della classe politica
Non è stato Karl Marx, ma il politico siciliano e teorico politico Gaetano Mosca a coniare il termine “classe politica”. Nel suo pionieristico libro del 1896 Elementi di Scienza Politica, Mosca rifiutava la classificazione di Aristotele tra regimi quali monarchie, aristocrazie o democrazie. La tesi di Mosca era che, in tutta la storia, l’umanità è stata sempre governata da una piccola minoranza. Lo ha dedotto dal suo studio di storia e scienze politiche, che a suo avviso aveva accumulato sufficienti nozioni per poter identificare le immutabili leggi della storia. La legge storica identificata da Mosca nel suo studio era la permanenza di una classe politica.
Se la visione di Mosca della politica voleva essere globale e trans-storica, la sua diretta esperienza di democrazia era abbastanza specifica, e arrivava dopo la lotta per l’unificazione italiana nota come Risorgimento. La democrazia derivante da quella lotta era alquanto imperfetta, con un esiguo – per quanto in espansione – suffragio.
Il Trasformismo, il sistema di governo messo in atto dai nuovi uomini di potere “professionisti” della classe media in Italia, dopo aver sostituito i grandi aristocratici liberali che aveva combattuto per l’unificazione, si basava sulle coalizioni sinistra-destra per tenere a bada gli estremismi. Ma il sistema degenerò in un sistema generalizzato di corruzione, clientelismo e patronato, con deputati interessati solo al proprio tornaconto personale. I principi a lungo termine venivano sacrificati per i profitti a breve termine, le politiche economiche non riuscivano ad aiutare i poveri, i livelli di alfabetizzazione restavano bassi e le scarse condizioni sanitarie erano pari al periodo precedente l’unificazione.
In tali circostanze, non dovrebbe sorprendere che Mosca non vedesse di buon occhio la “democrazia”, con cui intendeva la diretta influenza delle “persone”, attraverso i loro politici, su tutti gli aspetti di gestione dello Stato. Eppure restava un difensore del governo rappresentativo, come fu chiaro nel 1923, quando pubblicò la seconda edizione di Elementi di Scienza Politica (due volte più lunga della prima).
Nella seconda edizione, Mosca presentò la sua nozione di “difesa giuridica”: la separazione dei poteri. Mosca credeva che le civiltà fossero spinte dallo sviluppo di “forze sociali”: tutte le istituzioni umane – siano esse denaro, proprietà terriera, religione, istruzione o scienza – con un significato sociale. La “democrazia” era una nuova forza sociale, ma Mosca temeva che avrebbe finito per dominare tutte le altre e diventare tirannica: le civiltà veniva giudicate, a suo parere, in base a quante forze sociali riuscissero a mantenere in armonia. Il governo rappresentativo, basato su una separazione liberale e pluralistica dei poteri, era quindi ottimale, dal momento che poteva accogliere il maggior numero di forze sociali, sia che fossero giuridiche, sociali, economiche, amministrative o militari.
Ovviamente, la teoria di Mosca sul governo liberale, ancorata alla roccaforte di un impersonale sistema giuridico, è stata profondamente scossa da quello che sarebbe arrivato in Italia. Nel suo discorso finale al Senato italiano, Mosca denunciò Benito Mussolini – e poi si ritirò.
Dopo la virtù
Ci si potrebbe chiedere cosa farebbe Mosca della V Repubblica francese. De Gaulle era noto per aver pagato i propri francobolli mentre era presidente. Ma il regime da lui creato è corrotto da decenni. Ci fu lo scandalo dei diamanti di Bokassa “omaggiati” a Giscard d’Estaing; lo scandalo delle assunzioni nel Comune di Parigi con Chirac e Juppé; lo scandalo Clearstream per evasione fiscale per de Villepin, l’ex presidente Nicolas Sarkozy e Dominique Strauss-Kahn; e l’affaire Bygmalion, dal nome dell’agenzia di comunicazione di Jean-François Copé, un altro énarque, creata per finanziare la campagna di successo di Sarkozy (un’altra mano tesa, per 50 milioni di euro, arrivava dall’allora leader della Libia, Muammar Gheddafi).
Tutti questi episodi hanno preceduto il “PenelopeGate” dell’attuale campagna elettorale, in cui uno dei candidati in corsa per l’Eliseo, François Fillon rappresentante della destra, è indagato per appropriazione indebita di fondi pubblici per 1 milione di euro per un finto incarico parlamentare per la moglie. I guai di Fillon si sono trascinati, compromettendo la sua campagna. C’è stata l’assunzione di figli non qualificati come avvocati, tangenti per i meeting tra imprenditori e il presidente russo Vladimir Putin e assegni da un fondo governativo segreto che non erano diretti a lui.
E Fillon non è l’unico candidato delle elezioni di quest’anno ad essere accusato di corruzione. Le Pen si trova di fronte a un doppio smacco: a livello Ue, deve affrontare lo scandalo relativo all’assunzione del suo assistente parlamentare, per cui il Front National avrebbe sborsato 5 milioni di euro. A livello nazionale, Le Pen è accusata di aver fatto un uso improprio dei fondi statali per finanziare le proprie campagne elettorali che risalgono al 2011 (per non citare i milioni che ha ricevuto dalla Russia tramite banche ora defunte).
L’État, c’est nous
L’abbiamo già sentito in passato. La V Repubblica semi-presidenziale della Francia si caratterizza spesso per l’essere monarchica in più di un modo: non solo per la sua centralizzazione e il potente esecutivo, ma anche per aver mantenuto la corruzione e i favoritismi che facevano parte dell’Ancien Régime. Proprio come Luigi XIV, il “Re Sole”, che una volta dichiarò «l’État, c’est moi», i politici francesi considerano lo Stato di loro proprietà per disporne come vogliono. L’eccessivo ruolo degli énarques nella politica francese, e i loro stretti legami con la funzione pubblica e il mondo imprenditoriale, ha senza alcun dubbio acuito questo senso di diritto: lo Stato è nostro. È un senso che è difficile da perdere nei grandi scandali del paese.
Ma non serve essere un énarque per comportarsi come un Borbone. Sarkozy, Fillon e Le Pen hanno studiato tutti legge. Il governo di Sarkozy è stato il primo a includere un solo énarque, Valérie Pécresse, il ministro dell’Istruzione superiore (Hollande ha ripristinato l’ordine apparentemente naturale delle cose inserendo nel suo governo gli ex allievi dell’ENA, compreso Macron). Quindi la rivoluzione, nel caso ce ne fosse una, non partirà da qui.
Potrebbe invece partire da due professioni che sono state storicamente escluse dall’ENA: giornalisti e avvocati (di cui la grande maggioranza non ha, diversamente da Sarkozy, Fillon e Le Pen, intrapreso una carriera politica). Il settimanale satirico molto rispettato Le Canard enchaîné è da tempo in prima linea come giornalismo d’inchiesta in Francia, come nel caso degli scandali sui diamanti di Bokassa e degli affaires parigini di Chirac. Ma il suo ruolo nel rivelare gli scandali di Fillon non ha precedenti – e vi si uniscono nuove organizzazioni giornalistiche come Médiapart.
In modo analogo, con il governo di Hollande che rafforzava l’indipendenza della magistratura, insieme ai suoi poteri d’indagine, gli avvocati hanno assunto un ruolo di guida nel portare i politici corrotti in tribunale. Sia Fillon che sua moglie Penelope, sono penalmente indagati, ed è stata presentata una domanda formale per revocare l’immunità di Le Pen come membro del Parlamento europeo.
Purga dell’elite?
Tutto ciò, ovviamente, non sarebbe stato possibile senza un cambio delle mœurs: il pubblico francese è stufo delle vecchie abitudini e prassi – compresa quella di assumere famigliari come assistenti, che di fatto è perfettamente legale – e desiderano un cambiamento. Se la palude deve essere prosciugata, subentrerà il lavoro di tre forze sociali, per usare i termini di Mosca: un giornalismo rigenerato, una magistratura rafforzata e un cambio di moralità.
La grande ironia è che l’untore atto a produrre questo cambiamento, Macron, è un puro prodotto del sistema: un énarque che ha lavorato per la Rothschild & Cie Banque, prima di diventare ministro sotto Hollande. Ciò lo ha lasciato vulnerabile agli attacchi dal Front National, comprese le truppe antisemitiche da cui Le Pen presumibilmente tenta di far prendere le distanze al suo partito.
Inoltre, non è ancora chiaro come la figura di Macron incida positivamente sulla sinistra: Benoît Hamon, il candidato del Partito Socialista, dopo aver accusato Macron in un primo dibattito presidenziale di rappresentare il «partito del denaro» lo ha appoggiato con lo stesso impegno mostrato al “Fronte Repubblicano” con cui Jospin ha appoggiato Chirac nel 2002. Ma Jean-Luc Mélenchon, l’ex trotskista finito appena dietro Fillon nel primo turno delle elezioni, con quasi il 20% dei voti, ha rifiutato di sostenere Macron.
Macron ha promesso che metà del suo governo proverrà dalla società civile. E ha promesso lo stesso per le elezioni legislative che si terranno in giugno. Mentre questo potrebbe non portare alla “rivoluzione” promessa durante la sua campagna, un ampio turnover ai vertici potrebbe creare l’impeto per la riforma che da tempo manca alla V Repubblica e di cui tanto disperatamente necessita. I veri rivoluzionari – Le Pen e la destra reazionaria – sperano che Macron fallisca. Ma ciò che hanno in mente difficilmente si può definire progresso.
Hugo Drochon, che insegna politica all’Università di Cambridge, è autore di Nietzsche’s Great Politics.
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