Uno degli scopi fondamentali di un’uscita dell’Italia dall’euro sarebbe, naturalmente, la ridenominazione valutaria, ma questo presupporrebbe la possibilità di rimborsare contratti e titoli (compresi i titoli di Stato) in una nuova moneta nazionale svalutata. La cruda realtà è che l’Italia non potrebbe a fare una cosa del genere senza l’assenso dell’Unione europea e di altri mercati importanti a livello mondiale (1).
Applicare la ridenominazione all’interno di uno Stato membro che abbandona l’euro, fra debitori e creditori italiani, è un processo relativamente lineare: l’Italia approverebbe semplicemente una legge che stabilisce che tutti i contratti che prevedono pagamenti in euro, dai titoli di Stato ai prestiti commerciali e ai mutui immobiliari, dovranno essere adempiuti nella nuova lira. L’Italia e gli altri membri dell’eurozona conoscono bene questo processo, perché dovettero promulgare leggi simili al momento di adottare l’euro. Questo significherebbe, per esempio, che i mutui tra residenti italiani e banche italiane potrebbero essere facilmente ed efficacemente ridenominati nelle nuove lire.
Nei titoli di Stato italiani emessi recentemente in base alle leggi italiane, ci sono clausole di azione collettiva che impongono l’approvazione di una supermaggioranza dei creditori (in termini di ammontare di capitale nozionale) perché il cambio di denominazione sia vincolante per tutti i detentori. Ma l’Italia potrebbe facilmente vanificare queste clausole cancellando quest’obbligo nella sua nuova legge sulla ridenominazione. Sarebbe l’inverso di quello che fece la Grecia nel 2012, quando inserì nei titoli di Stato in essere nuove clausole di azione collettiva che consentivano a una maggioranza dei creditori di bloccare tentativi di opporsi a una ristrutturazione del debito. Tutto quello che è prescritto da una legge locale può essere modificato da una legge locale.
In teoria, la ridenominazione potrebbe presentare profili di incostituzionalità. Ma è improbabile, perché le precedenti svalutazioni della lira non sono mai state contestate e le basi per farlo sembrano fragili. Potrebbero esserci ricorsi basati sulle norme internazionali vincolanti in materia di diritti umani, in particolare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma questi trattati consentono deviazioni in caso di emergenza.
Insomma, applicare la ridenominazione all’interno di uno Stato membro sarebbe relativamente facile, ma al di fuori della giurisdizione nazionale (fra creditori esteri e debitori italiani) sarebbe molto più complicato.
A differenza dei tribunali dello Stato che abbandona la moneta unica, che sarebbero tenuti ad applicare le leggi nazionali sulla ridenominazione, i tribunali di altri Stati (sia dell’Unione Europea che del resto del mondo), dove sicuramente i contratti verrebbero impugnati, potrebbero scegliere se applicare le leggi italiane o di un’altra giurisdizione, e a seconda di questa scelta potrebbero giudicare illegale la ridenominazione. Sarebbe una pessima notizia per i debitori italiani, che dovrebbero continuare a pagare in euro le loro passività pur avendo subito una svalutazione delle loro attività e dei loro introiti in Italia.
Nel caso ordinario di un singolo Paese che passa da una valuta a un’altra, il problema di quale legge scegliere è relativamente semplice e verosimilmente il giudizio sarà che la ridenominazione è efficace. I tribunali generalmente applicano la lex monetae, la legge di chi emette la moneta. Per esempio, quando l’iperinflazione degli anni 20 costrinse la Germania di Weimar a rimpiazzare il marco con il temporaneo rentenmark e alla fine con il permanente reichsmark, i tribunali esteri applicarono la ridenominazione perché era legale in base alla lex monetae, nel caso in questione la legge tedesca.
Nell’ipotesi dell’abbandono di un’unione monetaria, tuttavia, non esiste una chiara lex monetae. Pertanto, se l’Italia uscisse dall’euro e stabilisse che i contratti in euro devono essere ridenominati nella nuova lira, l’Italia sarebbe l’emittente della moneta sostituente, ma gli Stati membri dell’eurozona rimarrebbero, nel loro insieme, gli emittenti della moneta sostituita.
Frederick Alexander Mann, il massimo esperto di queste questioni, alcuni anni fa ha proposto una soluzione al dilemma: i tribunali dovrebbero applicare la legge specificata nello strumento giuridico in questione, la «legge del contratto» (2). Se applicata, questa soluzione aiuterebbe l’Italia per quanto riguarda il settore pubblico, perché la quasi totalità del debito pubblico (circa il 94% nel 2012) è emessa in base alle leggi italiane. Tuttavia, le obbligazioni private spesso (nel 61% dei casi per le obbligazioni finanziarie e nel 40% dei casi per quelle non finanziarie) specificano che sono governate dalle leggi di un’altra giurisdizione (i dati sono sempre del 2012) (3). Per i contratti non obbligazionari non disponiamo di dati, ma possiamo aspettarci che la percentuale sia ingente.
Il giudizio di legalità sulla ridenominazione varierebbe, in linea di principio, a seconda della legislazione estera applicata, ma alcune giurisdizioni sarebbero molto ostili nei confronti della possibilità che un contratto stipulato in euro sia rimborsato in un’altra valuta, specialmente quando questo impone perdite ingenti a carico dei creditori. Questo potrebbe spingere i tribunali esteri a rigettare la ridenominazione per i creditori stranieri anche nel caso in cui la legge prevista nel contratto fosse quella italiana, per esempio nel caso dei titoli di Stato italiani. Prevedere quali decisioni prenderebbero i tribunali in giurisdizioni estere è difficile, perché non è mai stato espresso un parere giudiziario sull’uscita di un Paese da un’unione monetaria che continua a esistere. In ogni caso, a prescindere dalle decisioni dei singoli tribunali, ci sarebbero controversie legali prolungate e una grave incertezza.
La strada migliore per proteggersi da un futuro del genere, per l’Italia, sarebbe che l’Unione Europea e le altre grandi potenze economiche approvassero a loro volta dei provvedimenti di legge riguardo all’adozione di una nuova valuta da parte dell’Italia. Queste leggi dovrebbero rispecchiare quelle approvate al momento dell’adozione dell’euro. Nel 1997 l’Unione europea promulgò il regolamento (CE) 1103, che specificava che «l’introduzione dell’euro non avrà l’effetto di modificare alcuno dei termini di uno strumento giuridico, né di sollevare o dispensare dall’adempimento di qualunque strumento giuridico, né di dare ad una parte il diritto di modificare o porre fine unilateralmente a tale strumento giuridico». Altre giurisdizioni seguirono la stessa strada: lo Stato di New York, per esempio, approvò una legge simile che stabiliva che se «un soggetto o mezzo di pagamento di un contratto, titolo o strumento è una valuta che è stata sostituita o rimpiazzata dall’euro, l’euro sarà un sostituto e un equivalente sostanziale commercialmente ragionevole».
Per creare un quadro legale per il ritiro di uno Stato membro dall’area dell’euro, l’Unione europea potrebbe adottare un «regolamento 1103 al contrario», stabilendo che gli Stati membri sono tenuti a rispettare la ridenominazione, in base ai termini concordati per l’uscita. E altre giurisdizioni potrebbero fare altrettanto. Ma l’Unione europea accetterebbe davvero un abbandono dell’euro? E se sì, in che misura le condizioni che verrebbero imposte all’Italia eroderebbero una parte dei guadagni previsti? Considerando l’incertezza e il rischio che la ridenominazione venga vanificata dai tribunali, la forza contrattuale che avrebbe l’Unione europea sulle condizioni di un abbandono dell’eurozona da parte dell’Italia sarebbe enormemente superiore alla forza contrattuale che ha ora l’Unione europea sulle condizioni dell’abbandono da parte della Gran Bretagna dell’Unione europea stessa.
Bibliografia
1. Hal S. Scott, «When the Euro Falls Apart» (1998), International Finance, 207, e «When the Euro Falls Apart - A Sequel» (2012), Harvard Public Law Working Paper n. 12-16, consultabile su SSRN: https://ssrn.com/abstract=1998356
2. Frederick Alexander Mann, Money in Public International Law, Hague Academy of International Law (1960).
3. Le percentuali sono prese da Jens Nordvig e Nick Firoozye, Nomura Securities, «Rethinking the European Monetary Union» (2012), appendice II.
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