Ha senso o meno, per l’Italia, abbandonare l’euro? Avviando una discussione di alto profilo, su un tema considerato un tabù, questo giornale ha assolto una vera e propria funzione pubblica. La risposta è stata inequivoca. Gli argomenti economici sono stati decisamente a favore della permanenza dell’Italia nell’Eurozona. Gli stessi economisti che avevano dubitato sulla convenienza dell’Italia ad entrare nell’Eurozona, quando quest’ultima fu avviata, non hanno avuto dubbi a sostenere la necessità di rimanere in quest’ultima, se non altro per i costi altissimi che si pagherebbero per uscirne.
La risposta è risultata inequivoca anche sul piano politico e giuridico. Le ragioni politiche che avevano giustificato la costruzione dell’Eurozona con il Trattato di Maastricht del 1992 (in particolare la necessità di riequilibrare il potere economico della Germania) continuano ad essere più che mai valide. Allo stesso tempo, non è emerso un solo argomento per contestare l’interpretazione dell’Eurozona come un “esperimento irreversibile”.
Sul piano giuridico, se un paese dell’Eurozona decidesse di uscire da quest’ultima, dovrebbe uscire automaticamente anche dall’Unione europea (Ue). Quindi, la giuria (economica, politica e giuridica) ha raggiunto un verdetto quasi-unanime.
Tutto bene, dunque? Niente affatto. Lo schieramento anti-euro (che va dalla Lega alle estreme di destra e di sinistra al Movimento 5 Stelle) non ha bisogno di teorie scientifiche per giustificare sé stesso. Anche perché esso dà voce ad un malessere diffuso, in particolare nei paesi del sud dell’Eurozona, tra cui il nostro.
In questi paesi, la povertà è in crescita, le diseguaglianze sociali si sono accentuate, troppi giovani sono ai margini sia del mercato del lavoro che del sistema educativo. Nel nostro caso, c'è per di più una trappola infernale, costituita da un alto debito pubblico e da una bassa crescita economica, che ci attanaglia.
Ecco perché, liberato il campo dal falso problema dell'euro, è necessario discutere del vero (doppio) problema: il governo dell'Italia e dell'Eurozona sono o no adeguati per affrontare le sfide della crescita? Cominciamo dall'Italia. Non vi è dubbio che un debito pubblico che (nel 2016) è stato del 132,6 per cento del Pil costituisce un macigno sul nostro futuro. Sfidando tutti gli assiomi del keynesismo, l'Italia spende tanto (sul piano del bilancio) per ottenere poco (sul piano dello sviluppo). Un paradosso. La Commissione prevede, per il nostro paese, una crescita del Pil nel 2017 inferiore all'1 per cento (mentre la crescita media stimata dell'Ue è del 1,8 per cento e quella dell'Eurozona dell'1,6 per cento). Al di là delle stime che possono divergere (ma solo ai margini), è indubbio che l'Italia abbia una spesa pubblica improduttiva, sostenuta quindi da una tassazione che ci rende non-competitivi.Certamente, è bene non cadere nell'iconoclastia anti-statalista.
Quella spesa serve anche a garantire servizi essenziali per il funzionamento di una società democratica, tra cui il welfare. Tuttavia, è evidente che una parte di quella spesa serve a proteggere posizioni di rendita collegate spesso ad attività ridondanti. Si tratta di gruppi di interesse, per dirla con Mancur Olson, che difendono benefici concentrati e dispongono di risorse diffuse. In Italia hanno avuto modo di prosperare, grazie alla dispersione del potere politico.
Come se non bastasse, il loro particolarismo dispone di una legittimazione sociale, di un modo di pensare che considera “naturale” l'utilizzo familistico delle risorse pubbliche. Di qui, il circolo vizioso in cui si trova l'Italia, dovuto al suo sistema politico e non già all'euro. Il particolarismo non fa crescere il paese, la non-crescita alimenta l'insoddisfazione degli esclusi dalle corporazioni, l'insoddisfazione promuove movimenti populisti che propongono a loro volta obiettivi (si pensi al reddito di cittadinanza) che, se realizzati, sono destinati a rendere ancora più critico il nostro indebitamento. Nondimeno, l'esito del referendum del 4 dicembre ha mostrato che la maggioranza del paese ha creduto alle sirene di chi sosteneva che il paese non aveva bisogno di cambiare.
Un esito che non poteva cancellare la domanda a cui dobbiamo rispondere: come ridurre il debito pubblico con un sistema politico che favorisce il contrario? E soprattutto come farlo, rispettando i vincoli della democrazia? Perché, va da sé, un governo politico, contrariamente ad un governo di tecnici, non può a fare a meno del consenso elettorale. Se è vero che vi sono ostacoli interni alla riduzione del nostro debito, è anche vero che la governance esterna non ci aiuta. Eppure è evidente che l'assetto istituzionale dell'Eurozona va cambiato. Quell'assetto si basa, infatti, su due idee che si sono dimostrati fallaci. In primo luogo, l'idea che sia possibile una convergenza strutturale dei paesi dell'Eurozona grazie ai vincoli di un patto macro-economico (il Patto di stabilità e crescita) con carattere legale. In realtà quel patto si è dimostrato, non solo stupido, ma sbagliato. Esso ha trascurato di prendere in considerazione la varietà dei capitalismi europei (per dirla con Peter Hall, David Soskice, Wolfgang Streeck, Fritz Scharpf), assumendo invece che tutti paesi dell'Eurozona potessero rientrare nello stesso modello di politica di bilancio. In realtà, il modello scelto si è rivelato congeniale con i capitalismi del nord ma non con quelli del sud (Francia compresa). Capitalismi, quelli del nord, trainati dalle esportazioni e non dalla domanda interna, capaci di tenere sotto controllo la dinamica salariale e con imprese in grado di investire nell'innovazione tecnologica. Esattamente opposta è la logica dei capitalismi del sud.
Naturalmente, nel corso della crisi, l'Eurozona ha introdotto diverse misure per rendere meno stupide le regole di quel patto, come una maggiore flessibilità nell'interpretazione di quest'ultimo da parte della Commissione. Tuttavia, sono le regole macro-economiche, e non già la politica democratica, che tengono insieme l'Eurozona.Ma c'è anche una seconda idea, su cui quest'ultima è stata costruita, che non ha funzionato. L'idea che sia possibile combinare una moneta comune con politiche fiscali distinte, ovvero avere un'unione monetaria senza una unione fiscale. Con il risultato che, giunta la crisi, l'Eurozona si è trovata nella tempesta senza avere strumenti e risorse fiscali da usare in funzione anti-ciclica (da non confondere con i finanziamenti condizionati per salvare gli stati).
È stata la gestione della crisi che ne ha moltiplicato l'impatto nei paesi del sud dell'Eurozona. Per questo motivo, occorre riformare quest'ultima, dotandola di una sua capacità fiscale autonoma, gestita democraticamente, con cui neutralizzare gli shock asimmetrici che ostacolano la convergenza tra le economie dell'Eurozona. Dopo tutto, non si può chiedere la redistribuzione dei rifugiati, ma poi rifiutare la redistribuzione delle risorse.Insomma, l'azione di breve periodo per consolidare il nostro debito sarà tanto più efficace, e socialmente accettabile, quanto più sarà collegata ad una riforma della governance europea di medio periodo. Eppure, nel nostro paese, sembra esserci un'unica divisione, quella tra chi è contro l'euro (per definizione) e chi è difensore dell'Eurozona (così come è). Per i primi, tutti i problemi sono dovuti all'Europa, per i secondi tutti i problemi sono dovuti all'Italia. Ma così non è e non deve essere. L'Europa integrata e l'Eurozona vanno difese senza incertezze.
Così come vanno applicate senza incertezze le regole concordate per organizzare il loro funzionamento. Tuttavia, occorre anche criticare con chiarezza i limiti della governance europea. Proprio in questi giorni, il nuovo presidente francese Macron e il premier spagnolo Raioy hanno rivendicato la necessità di collegare l'azione di riforma domestica con quella europea. Sarebbe necessario che anche l'Italia si muovesse in questa direzione.
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