Dagli interventi apparsi all’interno del dibattito sull’euro organizzato dal Sole 24 Ore emerge una convinzione molto diffusa: uscire dalla moneta unica creerebbe più problemi che opportunità. Lo dicono anche coloro che sostengono che sarebbe stato meglio non entrarci (Feldstein, Il Sole 24 Ore 28 aprile). Quindi il problema si sposta sul tema: cosa fare per rafforzare l’euro e migliorare la nostra posizione?
La sfida è duplice. Da un lato dare il nostro contributo a promuovere un nuovo corso delle politiche europee per rinnovare modalità e tempi del funzionamento dell’area euro. Dall’altro, rafforzare e accelerare le riforme necessarie ad accrescere il nostro potenziale di crescita.
Sul versante europeo la debolezza è data da politiche e un assetto istituzionale dell’area monetaria che non sono ancora adeguati per fronteggiare gli elevati costi sociali e le divergenze tra i Paesi, generati dai lunghi anni di crisi.
Un dato di fatto è che l’unico motore dell’espansione in corso è il Quantitative easing (Qe) della Bce, un programma destinato a rientrare già a partire dal prossimo anno. Ma il Qe non basta. Servono politiche fiscali espansive a livello della zona euro nel suo complesso (la cosiddetta “fiscal stance”), come proposto dalla stessa Commissione, unitamente a un incremento degli investimenti su scala europea, soprattutto pubblici, andando al di là del piano Juncker, in modo da accrescere sia la domanda sia la capacità di offerta di lungo periodo, a livello europeo.
Tutto ciò oggi non si fa, perché manca una volontà politica, certo, ma anche per l’assenza di adeguati meccanismi di intervento comune. Va cambiata la governance economica della zona euro, a partire dalla creazione di una pur limitata capacità fiscale o di bilancio. Assegnandole tre principali funzioni: investimenti produttivi; assicurazione europea per la disoccupazione; forme di investimento sicuro per le banche. Consentendo, in quest’ultimo caso, il completamento dell’Unione bancaria, un processo rimasto a metà e che rappresenta una priorità assoluta per molti Paesi della zona euro, tra cui l’Italia (1).
Per introdurre tali modifiche è necessario un compromesso tra il gruppo di Paesi favorevoli a politiche di aggiustamento formulate in base a regole predeterminate e il gruppo che vede con favore l’introduzione di maggiore discrezionalità e meccanismi di condivisione dei rischi nella conduzione delle stesse politiche.
Per quanto le condizioni politiche attuali non siano favorevoli, la gravità dei problemi da affrontare richiede tuttavia risposte più efficaci e ambiziose. Potrebbero venire già alla fine di questo anno, a partire da una rinnovata intesa tra Francia e Germania. L’elezione di Emmanuel Macron, che ha incluso nel suo programma alcune proposte nella direzione sopra ricordata, potrebbe facilitare questo percorso.
È evidente come, per l’Italia e per il suo futuro, contribuire a questa possibile svolta rivestirebbe grande rilevanza.
Ma dobbiamo farci trovare pronti assumendoci le nostre responsabilità.
Tra le molte cose da fare l’attenzione maggiore riguarda la nostra incapacità di crescere come gli altri Paesi, soprattutto in termini di aumenti della produttività dei fattori produttivi. Alla lunga la divergenza nei tassi di crescita diventa incompatibile con la permanenza nelle stessa area monetaria (2).
Le riforme che i Governi di questa legislatura hanno messo in campo intenderebbero chiudere il gap con gli altri Paesi in termini di crescita. Nel Def recentemente approvato alle Camere, viene elencato un gruppo di riforme che dovrebbero alzare il Pil del 4,6% nei prossimi dieci anni e di quasi il 10% nel più lungo periodo.
Basterà per metterci “in careggiata”, con gli altri Paesi ?
È un inizio, ma non basta. Per vari motivi.
Innanzitutto si tratta di stime che fanno riferimento a modelli di estrapolazione di affidabilità modesta. In secondo luogo le stesse stime indicano effetti sul Pil di meno mezzo punto percentuale all’anno e non sappiamo se basterà per riportare il nostro trend di crescita in linea con quello degli altri Paesi. In terzo luogo le riforme in atto presentano carenze non trascurabili e inoltre stentano a decollare.
La riforma sulla concorrenza arriverà in porto, ma con limiti che tutti riconoscono. Quella della scuola ha investito molte risorse, ma il problema della scarsa efficacia dei nostri sistemi di insegnamento, che i dati Ocse continuamente ci ricordano, non sembra essere stato affrontato alla radice. La riforma del lavoro stenta ancora molto sui versanti sui quali si potrebbe veramente guadagnare margini di produttività e cioè nel campo delle politiche attive rivolte a curare quel “mismatch” che le ricerche internazionali considerano come uno dei motivi dell’inefficace funzionamento del nostro mercato del lavoro (3). I sistemi di alternanza e di apprendistato sono solo agli inizi. La Pubblica amministrazione è stata oggetto di una riforma importante, ma solo una parte minoritaria è riuscita ad arrivare in porto. Soprattutto il processo di “digitalizzazione” , da cui dipende la produttività del pubblico impiego, è molto indietro. Solo la giustizia, forse, ha fatto qualche passo in avanti.
E infine ”Industria” 4.0 - cui è affidato in larga misura il recupero del gap di produttività - potrà dare i frutti sperati solo se accompagnata dal sostegno degli investimenti pubblici. Questi sono caduti a un livello così basso che diventa difficile capire come potremo riprenderci in breve tempo.
Come si vede le due sfide sono enormi. Ma non abbiamo alternative ad affrontarle.
Bibliografia
1. “Completing Europe’s Economic and Monetary Union”(2015), a report by Jean-Claude Juncker, in close cooperation with Donald Tusk, Jeroen Dijsselbloem, Mario Draghi and Martin Schulz,
2. EU Quarterly Report on Euro Area, 1. The Drivers of Total Factor Productivity in Catching-up Economies, 2014.
3. McGowan M.A., Andrews D., Labour Market Mismatch and Labour Productivity,OECD Economics Department Working papers, n. 1209, 2015.
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