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Crisi aziendali, uno sguardo al futuro

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cassa integrazione e politiche attive

Crisi aziendali, uno sguardo al futuro

Gli ultimi dati sulle domande di cassa integrazione (-58% nell’aprile 2017 rispetto all’aprile 2016) hanno riacceso il dibattito su possibili ipotesi di (contro-)riforma del Jobs act. Tanto per cominciare, è paradossale sostenere che mentre le domande di cassa integrazione scendono si dovrebbe tornare indietro concedendo una cassa integrazione più lunga e in deroga, cioè con regole arbitrarie decise dalle burocrazie ministeriali. Non è una posizione ideologica la nostra, ma di semplice buon senso: la cassa integrazione si allunga nelle fasi di crisi non in quelle di ripresa. Nel 2009 fu necessario dare la cassa integrazione in deroga a tutti e per diversi anni, ma oggi siamo in una fase di ripresa e allungarla finirebbe per danneggiare i lavoratori, parcheggiandoli in vicoli ciechi, non per favorirli. La cassa integrazione serve a chi ha la possibilità di essere reinserito nella stessa azienda. È uno strumento prezioso per la gestione delle crisi, ma non deve essere stravolto: se un’azienda ha cessato la sua attività, per definizione i lavoratori non possono essere reinseriti in quella azienda e quindi l’unico aiuto reale che lo Stato può dar loro è una garanzia del reddito che non divida i disoccupati in quelli di serie A e serie B (cosa che il Jobs Act ha fatto rafforzando gli ammortizzatori sociali Naspi con oltre due miliardi di risorse) e, nello stesso tempo, un aiuto alla riqualificazione e alla ricollocazione.

Occorre proseguire lungo questo percorso tracciato dal Jobs Act attraverso il potenziamento delle politiche attive, anche introducendo interventi di politica attiva dal primo giorno di cassa integrazione, senza aspettare il licenziamento. Subito, all’insorgere della cassa integrazione, dovrebbe essere possibile destinare le risorse dei fondi interprofessionali alla riqualificazione di chi un giorno lascerà l’azienda. Questo del resto è il principio affermato nel documento congiunto tra Confindustria e sindacati del settembre 2016. Nel caso di un licenziamento collettivo, invece, la mobilità va sostituita con uno strumento di politica attiva “collettiva” che affianchi da subito l’erogazione della Naspi. Senza aspettare i quattro mesi che devono passare per l’assegno di ricollocazione individuale. Una proposta che coinvolge le imprese, lo Stato e le regioni può assumere questi contorni: al verificarsi di un licenziamento collettivo lo Stato – attraverso Anpal – emetta un assegno di ricollocazione collettivo destinato a pagare i servizi di ricollocazione di intermediari pubblici o privati (anche no profit), tale assegno è affidato dall’azienda che licenzia a un intermediario ed è pagato a quest’ultimo solo a risultato, cioè solo alla ricollocazione di una quota sufficientemente elevata dei lavoratori presi in carico. Allo stesso momento del licenziamento collettivo l’azienda paga un ticket di licenziamento per ogni lavoratore coinvolto, che verrà destinato come incentivo all’azienda che offre un nuovo lavoro al lavoratore licenziato. I fondi interprofessionali devono poter intervenire per la riqualificazione del licenziato – per la qual cosa serve un intervento normativo- su richiesta degli intermediari che si sono presi in carico la ricollocazione e/o delle aziende che si sono offerte per rioccupare i lavoratori. Le Regioni inseriscono gli assegni di ricollocazione e i percorsi di formazione all’interno di un piano che orienta i lavoratori verso la domanda delle imprese del territorio.

Le imprese oggi risparmiano a fronte dei licenziamenti collettivi diversi milioni di euro rispetto al mondo pre-Jobs Act: non c’è più il contributo obbligatorio alla mobilità né il contributo di licenziamento (sostituito dal ben minore contributo alla Naspi). Un ticket a carico dell’azienda da erogare per ogni lavoratore coinvolto in un licenziamento collettivo, in aggiunta a un nuovo tipo di assegno di ricollocazione “collettivo” pagato dallo Stato, e al contributo dei fondi interprofessionali ed eventualmente delle regioni possono contribuire alla soluzione di crisi aziendali senza ricorrere a deroghe inutili e costose. Questa sarebbe una riforma che ci metterebbe al pari con i Paesi europei, mentre la cassa integrazione in deroga ci farebbe fare un passo indietro rispetto alla rete di protezione universalistica creata dal Jobs Act contro il rischio disoccupazione, per tornare a un mondo in cui qualcuno è sempre più uguale degli altri.

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