Durand e Villemot (2016) esaminano gli effetti della possibile uscita dell’Italia dall’euro (ExItaly o Italexit). Secondo le loro stime, la «nuova lira» si rivaluterebbe dell’1% rispetto al resto dell’Eurozona per via del surplus commerciale esterno e concludono che le conseguenze non sono da drammatizzare. Conclusione rassicurante, se raffrontata alle previsioni pessimistiche di chi valuta gli effetti di una rottura dell’euro tendendo conto dell’impatto sugli stock di bilancio (Nordvig e Firoozye 2012). Meno apodittiche risultano le valutazioni di Realfonzo e Viscione (2015), che, considerando l’esperienza dell’Italia successiva alla crisi del 1992, osservano che nel post-ExItaly crescita e occupazione dipenderebbero più dalla qualità delle politiche monetarie e fiscali adottate che non dall’aggiustamento del cambio. Chi ha ragione, chi ha torto?
Aggiustamento di flussi o di stock?
In un’economia mondiale dominata dalla finanza - dove il volume delle transazioni finanziarie è oltre 70 volte il totale annuo di esportazioni e investimenti diretti esteri mondiali – è difficile immaginare che un evento come ExItaly si svolgerebbe in modo ordinato e tale da consentire ai cambi di aggiustarsi morbidamente alle nuove parità fra poteri d’acquisto nazionali e ai tassi d’interesse di riflettere efficientemente i differenziali d'inflazione. Tanto più per un’economia fortemente indebitata come quella italiana, nella quale l’incertezza di una situazione senza precedenti innescherebbe dinamiche di aggiustamento affatto imprevedibili, scaturenti più da considerazioni sul valore degli stock (sostenibilità del debito, appetibilità della nuova valuta) che dagli squilibri dei flussi (saldi commerciali). D’altra parte, non è possibile formulare congetture realistiche sui vantaggi e svantaggi di ExItaly in assenza di precise ipotesi sul regime di policy che l’accompagnerebbe e senza considerare la credibilità di cui tale regime godrebbe presso pubblico e mercati.
ExItaly
Esaminiamo tre opzioni. Nella prima, l’Italia sfrutta a fini espansivi la ritrovata sovranità economica. Introduce la nuova lira, invoca la Lex Monetae (Garner 2001) e ridenomina il debito. Lo Stato utilizza il recuperato potere di “stampare” danaro per proteggersi dal rischio di default e per finanziare il disavanzo con moneta. In tal modo mantiene tassi d’interesse bassi stimola la domanda con un’inflazione resa contenuta dall’elevato output gap. La Banca d’Italia s’impegna ad acquistare tutto il debito pubblico in essere (e quello di nuova emissione), denominato nella nuova valuta, che il mercato non è disposto ad assorbire a tassi bassi. Ciò comporta la possibile perdita del controllo sull’offerta di nuove lire e del limite all’espansione del bilancio pubblico, col rischio di deprimere il valore della nuova valuta e di contrarre la domanda delle attività in essa denominate, conseguente inflazione importata crescente e distruzione di potere d’acquisto e ricchezza reale.
Nella seconda opzione, la Banca d’Italia punta a sostenere la fiducia nella nuova lira, fa crescere i tassi d’interesse per contenere l’eventuale overshooting del cambio, rifiuta di monetizzare debito e disavanzo e lascia che la domanda aggregata si aggiusti ai tassi d’interesse di mercato. Le autorità fiscali, da parte loro, reintroducono regole per governare debito e bilancio. Questa opzione diminuisce l’impatto della svalutazione e assoggetta a limiti la riacquisita sovranità economica, configurando una situazione – alquanto paradossale – nella quale l’Italia esce dall’euro per riadottare le stesse policy che adottava prima di uscirne!
Nella terza opzione, Governo e Banca d’Italia sfruttano la sovranità ma nel contesto di una riforma del regime di policy. Concordano un piano di monetizzazione di una quota rilevante del debito pubblico, per esempio adottando la proposta PADRE di Pâris e Wyplosz (2014), così ristabilendo migliori condizioni di sostenibilità del debito, mentre il Parlamento introduce:
• un obiettivo duale per la politica monetaria, con il perseguimento di stabilità dei prezzi e piena occupazione (Saraceno 2015);
• la stabilizzazione del rapporto debito/Pil intorno al nuovo valore post-monetizzazione;
• l’obbligo di mantenere il bilancio strutturale in pareggio, permettendo l’uso anti-ciclico della leva fiscale ma con l’impegno di bilanciare i saldi attraverso i cicli ;
• la previsione che Governo e Banca d’Italia si coordinino nelle situazioni d’inefficacia della politica monetaria (Ball et al 2016).
Il nuovo regime libera l’Italia dalla trappola del debito, le restituisce ampi ma controllati margini per l’uso delle politiche della domanda, e le consente di transitare ordinatamente alla nuova valuta. Gli effetti sul cambio dipendono dalla credibilità della riforma, ma il valore esterno della valuta beneficia della maggiore sostenibilità del debito e delle migliori, possibili prospettive di crescita.
Come già sottolineato su queste colonne, laddove tale opzione risultasse inattuabile, meglio sarebbe per l’Italia rimanere nell’euro ma adottando la moneta fiscale come strumento monetario complementare all’euro, che consentirebbe a sostenere la domanda senza contravvenire alle regole dell’Eurozona (Bossone et al 2017).
Ristretto sarebbe il sentiero per governare l’uscita dell’Italia dall’euro. I possibili vantaggi dell’uscita deriverebbero assai più dal regime di policy che l’accompagnerebbe che non dalla svalutazione del cambio, possibilmente invero da contenere.
Riferimenti bibliografici
Amato, M., L. Fantacci, D. B. Papadimitriou, e G. Zezza (2016), Going Forward from B to A? Proposals for the Eurozone Crisis, Working Paper No. 866, Levy Economics Institute of Bard College
Balls E, J Howat and A Stansbury (2016), Central Bank Independence Revisited: After the financial crisis, what should a model central bank look like?, M-RCBG Associate Working Paper No. 67.
Bossone B., M. Cattaneo, M. Costa e S. Sylos Labini (2017b), Moneta Fiscale: il punto della situazione, Micromega, in via di pubblicazione.
Durand, C., e S. Villemot (2016), Balance Sheets after the EMU: an Assessment of the Redenomination Risk, Working paper 2016-31, OFCE, October.
Garner, B. A. (2001), A Dictionary of Modern Legal Usage, Oxford University Press.
Nordvig, J., e N. Firoozye (2012), Rethinking the European monetary union, Wolfson Economics Prize 2012.
Pâris, P., e C. Wyplosz (2014), The PADRE plan: Politically Acceptable Debt Restructuring in the Eurozone, VoxEu, 28 January.
Realfonzo, R., e A. Viscione (2015), Gli effetti di un'uscita dall'euro su crescita, occupazione e salari, Economia & Politica, 22 gennaio.
Saraceno F. (2015), Challenges for the ECB in times of deflation, Employment Working Paper No. 183, ILO Employment Policy Department. Geneva: International labor Organization.
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