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Le bugie di Donald Trump sul commercio

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L'Analisi|g7 di taormina

Le bugie di Donald Trump sul commercio

Negli ultimi mesi e in questi giorni al G7 di Taormina, alla comunità internazionale è stata illustrata una tesi straordinaria. Secondo la nuova presidenza americana, dalla liberalizzazione degli scambi internazionali gli Usa non avrebbero ottenuto quanto loro sarebbe dovuto spettare.

Non ci sarebbe “fair play” perché gli accordi commerciali esistenti sono “bad deals” conclusi a danno dei legittimi interessi americani.

Gli Stati Uniti sono il primo paese del mondo in termini di valore monetario del Pil e il secondo (dopo la Cina) se del Pil interessa il potere di acquisto all’interno dei confini nazionali. Gli Stati Uniti sono anche il primo dei grandi paesi in termini di pil pro capite, sia in termini di valore monetario che in termini di potere d’acquisto. Sono il secondo più grande esportatore (dopo la Cina) e il più grande importatore (prima della Cina). Il dollaro americano resta la “valuta di riserva” dominante a livello globale, cioè la moneta preferita dal mondo per detenere ricchezza e per effettuare pagamenti legati al commercio e agli investimenti internazionali. Questo, secondo un’espressione pare coniata negli anni Sessanta dall’allora ministro delle finanze francese Valéry Giscard d’Estaing, darebbe agli Stati Uniti un “privilegio straordinario” constringendo gli altri paesi ad acquistare dollari per poter comprare e investire sui mercati internazionali. Americane sono anche molte delle più grandi multinazionali e, ovviamente, gli Stati Uniti sono primi nel mondo in termini di potenza militare.

Nonostante tutto questo, secondo l’attuale inquilino della Casa Bianca le relazioni economiche del suo paese con il resto del mondo non sarebbero caratterizzate da “fair play” in quanto i suoi predecessori non sarebbero riusciti a tradurre il peso specifico americano in accordi commerciali adeguati. In particolare, avrebbero lasciato irretire il loro paese nei lacci e lacciuoli del sistema di accordi multilaterali supervisionato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio. In altre parole, invece di organizzare un torneo di più facili partite negoziali giocate separatemente con ogni singolo partner commerciale, avrebbero accettato di giocarsi tutto in un’unica e molto più difficile partita negoziale contro il resto del mondo, facendo la fine di Gulliver legato a terra dai lillipuziani. Il risultato sarebbe stato la distruzione di produzione e posti di lavoro americani a vantaggio delle importazioni dagli altri paesi.

Tra i più fastidiosi lillipuziani ci sono quelli che fanno parte dell’Unione Europea, non fosse altro perchè insieme rappresentano una potenza economica che insidia il primo posto degli Stati Uniti in termini di pil monetario, della Cina in termini di potere d’acquisto, di entrambi in termini di commercio internazionale. L’aspetto più seccante è però che, mentre gli Stati Uniti importano più di quanto esportano e hanno quindi un disavanzo della bilancia commerciale, l’Unione Europea (così come la Cina) esporta più di quanto importa ed è pertanto in avanzo. In questa situazione gli americani spendono più di quanto incassano e questo squilibrio si traduce in una posizione debitoria nel confronti del resto
del mondo.

La soluzione proposta dalla Casa Bianca per ridurre la propria posizione debitoria e riportare i posti di lavoro a casa sembra molto pragmatica nella sua semplicità: tasse sulle importazioni e, più in generale, politiche di protezione del mercato interno dalla concorrenza estera accompagnate da una proliferazione di accordi preferenziali bilaterali secondo la logica del torneo di più facili partite negoziali giocate separatemente. Molto pragmatica, ma unilaterale e non necessariamente vincente. L’unilateralità implica che i posti di lavoro eventualmente riportati negli Stati Uniti da qualche parte devono pur venire e sono quindi posti di lavoro distrutti altrove. E infatti gli altri paesi non sono contenti. La soluzione, inoltre, non è necessariamente vincente perchè si basa sul presupposto che gli altri paesi siano disposti a negoziare separatamente con gli Stati Uniti, qualcosa che nel caso dell'Unione Europea è sostanzialmente impossibile data la centralizzazione delle negoziazioni in capo alla Commissione di Bruxelles.

Questa impossibilità di dividere il campo avverso potrebbe spiegare la malcelata avversione della Casa Bianca nei confronti del progetto europeo. Termometro ne è la ricorrente retorica anti-tedesca. La colpa dei tedeschi agli occhi dell’amministrazione americana è di vendere troppe automobili negli Stati Uniti in virtù di una concorrenza definita sleale (“unfair”) o cattiva (“bad”) a seconda del momento. Questa terminologia fa venire in mente situazioni solitamente caratterizzate dallo sfruttamento di lavoratori sottopagati o da strategie predatorie di conquista di quote di mercato con prezzi sotto costo (il cosiddetto “dumping”). Applicate al caso tedesco, entrambe le fattispecie fanno sorridere. Lavoratori tedeschi sottopagati? Automobili tedesche vendute a prezzi stracciati? Per tacere del fatto che molte automobili tedesche vendute negli USA sono prodotte localmente.

Che cosa c’è allora sotto? Un problema molto sentito dai cittadini occidentali è la crescente disuguaglianza di reddito e di opportunità lavorative tra chi ha molto o tutto e chi ha poco o niente. La distribuzione geografica del voto per Trump negli Stati Uniti (come quello per la Brexit nel Regno Unito) rivela un consistente sostegno nelle aree dove, parallelamente alla globalizzazione degli ultimi decenni, sono andati in crisi i settori industriali tradizionalmente presenti sul territorio. Questo è stato interpretato come un voto di protesta (ma anche una richiesta di soccorso) di chi sente di subire i costi della liberalizzazione degli scambi internazionali senza goderne i benefici. Politicamente è più facile scaricare questa protesta sulla concorrenza estera “sleale” che affrontare il tema spinoso di una più equa distribuzione di questi costi e benefici all’interno del Paese.

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