Nella nostra analisi dei primi 100 giorni di Donald Trump abbiamo descritto due scuole di pensiero sul 45esimo presidente degli Stati Uniti: quella di chi continua a sperare che Trump possa essere un leader efficace, e quella di chi invece prevede soltanto un susseguirsi di scandali e disastri. Nelle settimane successive al suo insediamento, la posizione dei pessimisti sembra aver trovato pieno riscontro dal momento che lo stillicidio costante di rivelazioni dannose e comportamenti allarmanti che ha finora caratterizzato la presidenza di Trump si è trasformato in un flusso quasi ininterrotto.
Innanzitutto, Trump ha scioccato tutti prendendo la sfacciata decisione di licenziare James Comey, direttore dell’Fbi, il quale aveva ventilato l’ipotesi che Trump avesse ostacolato la giustizia. Tale ipotesi aveva preso corpo quando, a febbraio, era emerso che Trump aveva chiesto a Comey (da cui aveva preteso una promessa di fedeltà a livello personale) di abbandonare la sua indagine sui presunti legami tra alcuni governi stranieri e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Michael Flynn. Inoltre, il Washington Post riferisce che Trump aveva sollecitato il capo dell’Agenzia per la sicurezza nazionale e il direttore della National Intelligence a screditare pubblicamente l’indagine dell’Fbi. Come se ciò non bastasse, Trump aveva poi organizzato un incontro nello studio ovale con il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov e l’ambasciatore russo negli Stati Uniti Sergey Kislyak, durante il quale aveva rivelato informazioni altamente riservate e definito Comey uno «squilibrato».
Da allora, le indagini dell’Fbi e del congresso sulla campagna elettorale e sulla presidenza di Trump hanno assunto un nuovo carattere di urgenza. L’ex direttore dell’Fbi Robert Mueller è stato nominato consulente speciale per condurre l’inchiesta del Dipartimento della giustizia. La Commissione di intelligence del Senato si prepara adesso a raccogliere la testimonianza di Comey, e ha recentemente emesso un’altra serie di mandati di comparizione in relazione ai documenti in possesso di Flynn, dopo che quest’ultimo ha invocato il diritto a non autoincriminarsi previsto dal quinto emendamento della Costituzione americana. E questa settimana la Commissione di intelligence della Camera dei rappresentanti ha raccolto la testimonianza dell’ex direttore della Cia John Brennan riguardo ai suoi sospetti sulla presunta interferenza della Russia, per conto di Trump, sull’esito delle ultime elezioni americane.
Mentre i suoi problemi sul fronte interno si vanno accumulando, Trump ha compiuto i suoi primi viaggi all’estero in qualità di presidente visitando l’Arabia Saudita, Israele, la sede della Nato in Belgio, il Vaticano e l’Italia in occasione del G7. Com’era prevedibile, gli incontri che Trump ha avuto con i leader mondiali hanno sollevato interrogativi sul futuro del ruolo internazionale dell’America che non sono meno pressanti di quelli che la sua amministrazione deve affrontare internamente. Ed è proprio a questi interrogativi che i commentatori di Project Syndicate hanno cercato di dare una risposta ancora più urgente in queste settimane di crescente incertezza politica.
Una commedia degli errori spontanei
Nella settimana prima che Trump partisse per l’Arabia Saudita, lo staff della Casa Bianca «era quasi sull’orlo dell’esaurimento», scrive Elizabeth Drew, cronista storica di politica americana. Mentre i collaboratori di Trump passano «da una crisi presidenziale all’altra, cercando tutto il tempo di sottrarsi all’ira del presidente», il mondo esterno può solo assistere impotente alla «disintegrazione di una presidenza».
Drew aggiunge, fra l’altro, che «neanche i democratici sono granché contenti» delle gesta icariane di Trump. «Un presidente che appare fuori controllo», scrive, «come minimo preoccupa qualunque cittadino riflessivo». Per Drew, «l’ingenua convinzione» di Trump che i democratici lo avrebbero ringraziato per aver licenziato Comey – accusato da Hillary Clinton di aver sabotato la sua campagna elettorale verso la fine – è una dimostrazione della sua «pessima capacità di giudizio». E lo stesso può dirsi della sua decisione di divulgare informazioni riservate ai russi, cosa che, pur non essendo illegale, rappresenta un’evidente violazione delle «norme fondamentali per la condivisione dell’intelligence».
Sull’ultimo punto, l’opinione di Drew viene corroborata da Kent Harrington, un ex agente della Cia in Asia. Dimostrando alle agenzie d’intelligence di tutto il mondo di «non essere affidabile», Harrington scrive, Trump ha «arrecato un danno profondo alla sicurezza nazionale statunitense». Sul piano della raccolta delle informazioni, Harrington spiega, le rivelazioni di Trump rischiano di avere ripercussioni su vasta scala che potrebbero indurre altri governi a eseguire «un’analisi costi-benefici in relazione alla condivisione delle informazioni sensibili con partner americani». Se la conclusione dovesse essere che condividere intelligence con l’amministrazione Trump è «un rischio inutile, se non addirittura insostenibile», potrebbero iniziare a «tenere i propri consigli e giudizi per sé».
Il disordine che ha pervaso l’amministrazione nelle ultime settimane – e l’alacrità con cui i suoi alti funzionari fanno trapelare informazioni compromettenti – richiama alla memoria l’ex presidente americano Richard Nixon, il quale nell’agosto del 1974 preferì dimettersi anziché affrontare un caso d’impeachment e un procedimento penale. Ma Sean Wilentz, storico dell’Università di Princeton, mette in guardia da un eccessivo confronto Trump-Nixon poiché il clima politico attuale è ben diverso da quello di allora.
A differenza di Trump, Wilentz sottolinea, Nixon si trovò ad affrontare «un’opposizione formata da compatte maggioranze democratiche in entrambe le camere del Congresso», e persino il fatto che alcuni repubblicani fossero disposti ad «anteporre i timori per la Costituzione a quelli per il proprio partito». Anche se «Trump può ancora cadere», ciò avverrà soltanto se «dovessero emergere elementi altrettanto incriminanti di quelli che misero Nixon ko», come le registrazioni di conversazioni avvenute nello studio ovale.
“Per Trump il vero pericolo arriverà quando i cittadini ammaliati e conquistati durante la campagna elettorale cominceranno a rivoltarglisi contro”
Bernard-Henry Lévy, filosofo
Anche il filosofo francese Bernard-Henri Lévy non pensa che i leader repubblicani avvieranno alcuna azione significativa nei confronti di Trump, come l’impeachment o l’appello al 25mo emendamento, che prevede la rimozione di un presidente che non è in grado di «esercitare i poteri e adempiere ai doveri della sua carica». Tuttavia, Lévy ritiene che Trump non riuscirà a sottrarsi a quello che è il giudice più autorevole nelle «democrazie post moderne», cioè l’opinione pubblica.
Lévy mette in evidenza segnali che suggeriscono un crescente «disgusto dei cittadini» per l’operato di Trump. Una recente petizione per richiedere l’impeachment ha raccolto oltre un milione di firme nel giro di poco tempo. E alcuni sondaggi mostrano che una maggioranza di americani vorrebbe la rimozione di Trump dall’incarico qualora l’accusa di collusione con la Russia durante la campagna elettorale venisse confermata. «Per Trump - scrive Lévy - il vero pericolo arriverà quando i cittadini ammaliati e conquistati durante la campagna elettorale cominceranno a rivoltarglisi contro».
La repubblica alla deriva
Per molti commentatori di Project Syndicate un deragliamento dell’amministrazione Trump rappresenta un pericolo non per il rischio che finisca la sua corsa in un fosso, ma perché continuerebbe a procedere a rotta di collo, causando danni permanenti alla presidenza stessa. Come spiega Ana Palacio, ex ministro degli Esteri spagnolo, la presidenza Usa è «un pilastro dell’ordine internazionale» che fornisce «direzione e guida» e aiuta a mantenere il controllo della situazione. Secondo Palacio, perfino un’amministrazione che persegua politiche discutibili sarebbe preferibile a un’amministrazione priva di una direzione chiara.
Palacio teme che l’amministrazione Trump abbia già messo in discussione il «funzionamento stesso» della presidenza. Come un sovrano bambino, Trump deve rimettersi al giudizio di vari reggenti per gestire le complessità legate alle politiche estera e interna. Ma Palacio dubita che nessuno di questi consiglieri «possa sopravvivere come voce della ragione indipendente». E anche se vi riuscisse, gli alleati dell’America finirebbero per chiedersi se a parlare per gli Stati Uniti sia il presidente oppure uno dei suoi surrogati. Che ne sia consapevole o meno, Trump rappresenta ciò che Palacio definisce «una voce autorevole sugli affari del mondo», tanto che «quando un presidente americano parla, la gente ascolta».
Ma, come osserva Michael Mandelbaum della Johns Hopkins University School of Advanced International Studies, i leader mondiali non possono ignorare i travagli di Trump sul fronte interno. «La minaccia rappresentata dalla Russia è oggi la caratteristica principale delle relazioni internazionali dell’Europa», sostiene. Di conseguenza, il bagaglio politico del presidente – i suoi presunti legami, se non la collusione, con funzionari russi durante la campagna elettorale – è motivo di forte preoccupazione per i leader della Nato, con cui Trump ha avuto un incontro giovedì scorso. Gli alleati americani in Europa devono sapere che Trump «possiede le conoscenze di base sugli affari europei», scrive Mandelbaum, ed essere «rassicurati sul fatto che sia preparato a esercitare il tipo di leadership di cui oggi la Nato ha bisogno».
Tale leadership, Mandelbaum sostiene, «non comprende discorsi volti a infiammare gli animi, e di certo non dei tweet impulsivi». Piuttosto, «il compito del presidente degli Stati Uniti è fissare obiettivi che rendano la Nato più forte, unita e capace di fare fronte alle nuove minacce con cui è chiamata a confrontarsi». E oltre a questo, Trump dovrà «instaurare rapporti diretti con i leader europei», in modo da poterli «persuadere, talvolta lusingandoli, a fare quanto è necessario per raggiungere tali obiettivi». Mandelbaum si rammarica del fatto che questa descrizione «non corrisponda allo stile di leadership che Trump ha mostrato finora, sia come candidato che come presidente», ma spera altresì che la riunione con i leader della Nato a Bruxelles sia servita come campanello d’allarme.
“Il compito del presidente degli Stati Uniti è fissare obiettivi che rendano la Nato più forte, unita e capace di fare fronte alle nuove minacce con cui è chiamata a confrontarsi”
Michael Mandelbaum, Johns Hopkins University School of Advanced International Studies
Ma se anche si adoperasse per una leadership pratica nell’ambito delle alleanze esistenti, l’amministrazione Trump sembra comunque aver abdicato a quei ruoli di leadership che l’America tradizionalmente ricopre. Per Aryeh Neier, presidente emerito di Open Society Foundations, ciò è particolarmente evidente nell’ambito dei diritti umani. Secondo Neier, «Trump ha fatto trapelare la propria affinità con alcuni leader autoritari in modo più che evidente», innanzitutto tessendone le lodi, poi subordinando la promozione dei diritti umani agli obiettivi di politica estera degli Stati Uniti.
Neier, uno dei fondatori di Human Rights Watch, cita un recente discorso che il Segretario di Stato Rex Tillerson ha pronunciato alla presenza di funzionari del Dipartimento di Stato, in cui «sottolineava che gli Usa non metteranno più i diritti umani al primo posto nell’interagire con altri paesi su questioni economiche e di sicurezza». Secondo Neier, tollerare le pratiche repressive di governi autoritari non è soltanto immorale, bensì «potenzialmente dannoso nel lungo termine per gli interessi economici e legati alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, poiché mina il rispetto e il prestigio di cui l’America gode a livello globale».
Una nuova linea dura?
In questo contesto, non sorprende che l’Arabia Saudita – una monarchia autoritaria con uno dei peggiori primati al mondo in materia di diritti umani – sia stata la prima destinazione estera scelta da Trump per una visita ufficiale. Mentre si trovava a Riyadh, Trump ha tenuto un discorso di fronte a un’assemblea di rappresentanti dei Paesi musulmani a maggioranza sunnita, in cui si è scagliato contro l’Iran sciita.
La linea dura di Trump nei confronti dell’Iran ha rafforzato il timore che la sua amministrazione possa affossare l’accordo sul nucleare tra l’Iran e i P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, più la Germania) siglato nel 2015. Tuttavia, malgrado la retorica di Trump, la sua amministrazione è stata recentemente «costretta ad ammettere» l’adempimento agli obblighi sanciti dall’accordo da parte dell’Iran, osserva Javier Solana, ex alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune ed ex segretario generale della Nato, che condusse le trattative con l’Iran nei primi anni del 2000.
Eppure, anche se Trump abbaia ma non morde, il destino dell’accordo sul nucleare dipende anche da ciò che succederà in Iran negli anni a venire. Molti commentatori di Project Syndicate concordano che la Repubblica islamica potrebbe essere prossima a una svolta. Dal momento che il leader supremo Ali Khamenei sta lottando contro il cancro, «la battaglia per la scelta di un nuovo leader supremo potrebbe non essere lontana», osserva Robert Harvey, ex membro della commissione per gli affari esteri della Camera dei comuni britannica.
Lo stesso giorno in cui Trump è partito per il Medio Oriente, gli iraniani hanno rieletto il loro pragmatico presidente, Hassan Rohani, respingendo la linea dura del suo avversario, Ebrahim Raisi, che molti pensano volesse sfruttare la presidenza come trampolino di lancio per succedere a Khamenei (che pure assunse l’incarico di leader supremo dopo un mandato da presidente). Ma mentre Rouhani ha vinto con un margine più ampio del previsto (evitando il ballottaggio al secondo turno), le elezioni, sostiene Abbas Milani dell’Università di Stanford, si sono rivelate un «referendum inaspettatamente acceso sul futuro del Paese», in cui «due paradigmi politici rivali si contendevano l’anima della Repubblica islamica».
Per alcuni aspetti importanti, la battaglia politica che divide l’Iran somiglia a quella che di recente si è svolta in molti Paesi occidentali. Coloro che si oppongono a un’apertura economica e una riconciliazione con gli avversari si misurano con riformatori come Rouhani. I riformatori, scrive Milani, vogliono dare vita a una «società più aperta» con «meno censura», garantire che l’Iran abbia «un governo gestito da tecnocrati competenti», costruire «una relazione più conciliante con la vasta e potente diaspora dell’Iran», e raggiungere «più parità per le donne e le minoranze etniche e religiose emarginate».
“In Iran gli investitori stranieri si mantengono cauti a causa della persistenza di sanzioni non relative al nucleare e restrizioni sulle attività bancarie da parte degli Usa”
Hassan Hakimian, School of Oriental and African Studies (Soas) dell’Università di Londra
Ma il fatto che gli iraniani, soprattutto i giovani (che rappresentano la maggioranza dell’elettorato), abbiano votato in modo schiacciante a favore delle riforme non significa che il secondo mandato di Rouhani sarà una passeggiata. Come spesso accade, molto dipenderà dall’economia. Durante il suo primo mandato, Rouhani è riuscito a portare il tasso d’inflazione a una cifra, stabilizzare il tasso di cambio e ottenere l’annullamento di varie sanzioni internazionali in base all’accordo sul nucleare. Tuttavia, come Djavad Salehi-Isfahani di Virginia Tech osserva, il tasso di crescita dell’Iran sta registrando un calo rispetto alle previsioni, e sotto Rouhani tanto la povertà quanto la disoccupazione, soprattutto tra i giovani, sono aumentate.
Se Rouhani non sarà in grado di aumentare i posti di lavoro e i redditi, i fautori della linea dura populista che promettono sussidi statali potrebbero guadagnare terreno in futuro. A peggiorare la situazione c’è il fatto che Rouhani avrà uno spazio di manovra molto limitato per tentare di rilanciare l’economia. Per cominciare, osserva Hassan Hakimian della School of Oriental and African Studies (Soas) dell’Università di Londra, ripristinare la crescita richiederà investimenti, ma «gli investitori stranieri si mantengono cauti a causa della persistenza di sanzioni non relative al nucleare e restrizioni sulle attività bancarie da parte degli Usa».
Rouhani dovrà anche superare ostacoli strutturali vecchi di decenni che non possono essere semplicemente spazzati via. L’economia iraniana dipende ancora troppo dalle entrate legate al petrolio, e ha un disperato bisogno di essere diversificata. Ma per attuare delle riforme strutturali su vasta scala, Hakimian nota, Rouhani dovrà riuscire a manovrare la «peculiare struttura istituzionale» dell’Iran, che richiede di conciliare politiche economiche e sociali del ventunesimo secolo con «i valori tradizionali di leader spirituali e sacerdoti sempre più anziani».
Dal canto suo, Solana è fiducioso che la «retorica di Rouhani sull’apertura non sia mera politica». Egli ritiene che Rouhani continuerà a sostenere l’accordo sul nucleare e a lavorare «per un maggiore impegno internazionale» durante il suo secondo mandato. Resta da vedere, però, se incontrerà più resistenza da parte dell’amministrazione Trump o da parte degli ecclesiastici iraniani fautori della linea dura. «Il mondo non può permettersi la sospensione dell’accordo sul nucleare iraniano», insiste Harvey. «Se Trump tenterà di riprendere il pas de deux dell’America con l’Iran, il risultato potrebbe essere una danza macabra».
Raccogliere il testimone
Più a est, anche la Cina sta rafforzando il proprio impegno internazionale. Nei giorni precedenti il viaggio di Trump, la Cina ha ospitato un vertice volto a lanciare una nuova era di sviluppo globale a guida cinese. Il 14-15 maggio, leader mondiali provenienti dal Nord Africa fino all’Asia Centrale e al Pacifico meridionale si sono riuniti per un incontro sull’iniziativa cinese “One Belt, One Road” (Obor, ’una cintura, una strada’), un programma di infrastrutture e investimenti su vasta scala che ha per obiettivo quello di collegare Asia, Africa ed Europa. Malgrado l’iniziativa abbia finora suscitato reazioni diverse, nota Keyu Jin della London School of Economics, ci sono «valide ragioni economiche dietro al progetto”, poiché delle infrastrutture efficienti migliorano la produttività, stimolano gli investimenti e riducono i costi associati al commercio».
Inoltre, secondo Justin Yifu Lin e Yan Wang del Centro per una nuova economia strutturale dell’Università di Pechino, poiché combina commercio e investimenti con aiuti allo sviluppo ufficiali, l’iniziativa Obor rappresenta un miglioramento significativo rispetto al modello tradizionale di sviluppo economico. Il suo approccio più onnicomprensivo, sostengono, consente «tanto ai Paesi donatori quanto a quelli beneficiari» di ricavare dei vantaggi con una partecipazione commisurata alle proprie forze. Ad esempio, essendo in grado di «raggiungere economie di scala che altri Paesi semplicemente non riescono a realizzare», la Cina detiene un «netto vantaggio comparativo nella costruzione delle infrastrutture», che può esportare per aiutare i paesi vicini.
Per Jin, le accuse che la Cina starebbe tentando di «conquistare un maggiore controllo sul mondo in via di sviluppo, e persino di voler rimpiazzare gli Stati Uniti come superpotenza dominante a livello globale» sono troppo contorte. Anche se la Cina sta effettivamente portando avanti il suo programma, ella sostiene, non sta facendo nulla di così diverso da quello che fecero gli Stati Uniti con il Piano Marshall. Ma Brahma Chellaney, esperto di studi strategici presso il Center for Policy Research di New Delhi, sottolinea che la Obor, «avendo dimensioni 12 volte maggiori rispetto al Piano Marshall, non ha uguali nella storia moderna». E molti dei vicini della Cina non hanno aderito all’iniziativa.
«Le dispute territoriali nel Mare della Cina meridionale», dice Stephen Roach dell’Università di Yale, «hanno un certo peso, ma anche la presenza cinese in Africa e America Latina è sempre più sotto scrutinio». E tale attenzione ha sollevato domande sulla «questione più importante di tutte, e cioè se la Cina stia riempiendo un vuoto egemonico creato dall’approccio isolazionista di Trump ispirato allo slogan ’America first’».
Anziché semplicemente sostituire gli Usa nel ruolo di custode dell’ordine liberale internazionale, Chellaney ritiene che il presidente cinese Xi Jinping stia «cercando di rimodulare la globalizzazione alle condizioni della Cina, creando nuovi mercati per le aziende cinesi, che in patria affrontano un rallentamento della crescita e un problema di sovraccapacità produttiva». Tuttavia, a prescindere se Xi sia guidato dalla necessità o da una cieca ambizione, Chellaney sospetta che «possa stare facendo il passo più lungo della gamba». Concedendo una siffatta quantità di credito a basso interesse ad altri governi per finanziare progetti infrastrutturali realizzati da aziende statali cinesi, la Obor rischia di aggravare l’onere, già pesante, sulle banche cinesi legato ai crediti in sofferenza.
Secondo Minxin Pei del Claremont McKenna College gli altri Paesi hanno tre alternative di fronte all’espandersi del raggio d’azione della Cina: sottomettersi all’espansionismo economico e strategico cinese, formare partnership con la Cina a margine delle tradizionali alleanze politiche, oppure creare un’alleanza per contenere la Cina. Le altre due potenze economiche asiatiche, l’India e il Giappone, sono per il terzo approccio. Riuscendo a «dimostrare di essere disposte a sostenere i costi del mantenimento dell’equilibrio dei poteri nella regione», Pei scrive, saranno in grado di «evitare l’avvento di un’Asia sino-centrica».
Secondo Pei, il primo ministro giapponese Shinzo Abe è un ottimo esempio di leader che mette in discussione l’idea comune che la presidenza di Trump segnerà l’avvento dell’egemonia cinese. Lanciando un’iniziativa per resuscitare l’accordo Tpp, che Trump ha abbandonato subito dopo aver assunto l’incarico, Abe sta preparando la strada per un futuro alternativo. Pei sottolinea che, se gli altri 11 Paesi firmatari dell’accordo riusciranno a formare un nuovo blocco del libero commercio, la somma dei loro rispettivi Pil arriverà quasi a eguagliare quello della Cina. Inoltre, egli prevede che altri Paesi, come «la Corea del Sud e l’Indonesia potrebbero essere tentati di aderirvi» se un simile progetto dovesse decollare.
Nel corso della campagna presidenziale 2016, Trump ha strigliato gli alleati dell’America per la loro eccessiva dipendenza dagli Stati Uniti e perché non si occupano abbastanza dei propri affari economici e di sicurezza. Ma Trump e i suoi sostenitori dovrebbero stare più attenti a ciò che desiderano. Dopo soltanto alcuni mesi di presidenza di Trump, alcuni di questi alleati sembrano voler raccogliere la sua sfida, non perché siano intimiditi dalla sua abilità negoziatrice, ma perché la sua incapacità come leader non lascia loro altra scelta.
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