Abbandonare l’euro è una decisione economica e politica gravida di conseguenze, che non sarà certo presa, e non dev’essere presa, sulla base delle sottigliezze del diritto contrattuale, che si occupa del «come» potrebbe avvenire un’uscita, non certo del «se». Partendo da questa considerazione, cercherò perciò di tracciare una mappa dei problemi che si accompagnerebbero a un’ipotetica uscita dell’Italia dalla moneta unica.
Un aumento del debito pubblico
Per prima cosa, come Hal Scott e altri hanno fatto notare in questo dibattito, la ridenominazione è la questione monetaria principale, e per i contratti fra residenti italiani disciplinati dal diritto nazionale può essere realizzata in modo relativamente semplice. La questione potrebbe però diventare spinosa quando entrano in gioco residenti esteri o altre giurisdizioni. Per seconda cosa, se una fetta sostanziosa del debito italiano, pubblico o privato, dovesse sfuggire alla ridenominazione, il fardello reale per l’economia crescerebbe, agitando lo spettro di una ristrutturazione del debito. Per terza cosa, collegata alla precedente, le autorità dovrebbero cercare di scovare disallineamenti nascosti nei bilanci degli intermediari finanziari: per esempio, se le attività delle banche disciplinate dalla legge italiana vengono efficacemente convertite in lire, mentre le passività delle stesse banche disciplinate dalla legge di altri Paesi rimangono in euro, la ridenominazione potrebbe lasciare il settore bancario con una carenza patrimoniale più estesa, e al tempo stesso rendere subordinati, a loro insaputa, i creditori nazionali. Il risultato probabile sarebbe un aumento del debito pubblico.
La ridenominazione in lire di contratti in euro normalmente sarebbe una questione di lex monetae, il principio legale che investe lo Stato che emette una valuta del controllo sul valore della medesima. La Ruritania che emette obbligazioni denominate in rur è libera di sostituirle con nuove rur che valgono la metà di quelle vecchie: i creditori normalmente non avrebbero altra scelta che accettare le nuove rur in pagamento del vecchio debito, subendo una decurtazione del 50 per cento. Per sfortuna dell’Italia, la lex monetae in questo caso non sarebbe di grande aiuto, perché la moneta prevalente è emessa dalla Banca centrale europea e continuerebbe a esistere anche dopo un ritorno della lira allo status di moneta legale. Per questa ragione, la ridenominazione avrebbe maggiori speranze di successo se sostenuta da leggi (adottate in Italia, in tutta l’area dell’euro e nelle principali giurisdizioni finanziarie internazionali) che riconoscessero che i contratti denominati in euro possono essere pagati in lire.
Una legge sulla ridenominazione prevarrebbe sugli impegni contrattuali previsti dalla legislazione locale, come le clausole di azione collettiva (Cac) inserite nei titoli di Stato dell’area dell’euro, che dal 2013 impongono l’assenso di una maggioranza dei creditori per modificare la valuta del contratto. Nel momento in cui dovesse uscire da tutti gli altri impegni previsti dai trattati europei, l’Italia farebbe cosa saggia a non dare seguito alla sua promessa di adottare le Cac nel quadro del trattato sul Meccanismo europeo di stabilità. Sarebbe bene farlo prima di promulgare la legge sulla ridenominazione o di lanciare una ristrutturazione del debito, il che significa che velocità e riservatezza sarebbero essenziali. Anche in questo caso, alcuni creditori che detengono obbligazioni con Cac disciplinate dalla legge italiana contesterebbero inevitabilmente la ridenominazione sostenendo che costituisce una violazione tanto del contratto quanto del trattato. Anche se i ricorsi alla fine probabilmente verrebbero respinti, impegnerebbero risorse preziose .
Vantaggi aleatori
Che cosa succederebbe al debito disciplinato dalle leggi di altri Paesi, che non sarebbe semplice ridenominare? A seconda delle dimensioni relative dello stock di debito in valuta estera e di chi lo detiene nel momento dell’uscita dell’Italia dall’euro, potrebbe rendersi necessario procedere a una ristrutturazione. Contrariamente ad alcuni rapporti di analisti di mercato, più lo stock di debito estero «inflessibile» è consistente, meno probabilità ci sono di evitare perdite sulla base del principio noto tra gli appassionati di diritto fallimentare come «pig to hog» (1). Per i debitori privati, il diritto fallimentare nazionale e le procedure per la risoluzione delle crisi bancarie dovrebbero farsi carico del fardello debitorio. Il regime italiano di risoluzione delle crisi bancarie non ha fatto che cambiare dal momento in cui è stato introdotto a livello comunitario il Meccanismo di risoluzione unico: è difficile dire quali caratteristiche avrebbe dopo lo shock di un’uscita dall’euro.
Uno Stato non può presentare domanda di bancarotta o di risoluzione. In uno scenario ottimistico, solo i titoli di debito che specificano nel contratto di fare riferimento a una legislazione estera sfuggirebbero alla ridenominazione. Questo lascerebbe il 5 per cento circa del debito pubblico italiano denominato in valute estere (euro, ma anche sterline, dollari americani e franchi svizzeri: le valute diverse dall’euro sono una piccola frazione del totale in Italia). I vantaggi economici di ristrutturare questo debito sono aleatori: non ci scommetterei sopra. Nel caso improbabile che i titoli disciplinati da leggi di altri Paesi sfuggissero a una ristrutturazione che colpisse tutto il resto del debito pubblico, gli operatori di mercato sarebbero fortemente incentivati, nelle successive emissioni di titoli di Stato italiani, a pretendere che siano emessi in valuta straniera e disciplinati da leggi di altri Paesi. Questo potrebbe pesare sul finanziamento della ripresa e renderebbe il debito pubblico in essere dell’Italia più rigido e allo stesso tempo più instabile.
Ristrutturare i titoli di Stato italiani disciplinati da leggi di altri Paesi presenterebbe un altro problema: tutti questi titoli sono stati emessi prima dell’introduzione delle Cac nell’area dell’euro, nel gennaio del 2013, e includono condizioni particolarmente favorevoli al creditore. Per esempio, le obbligazioni emesse a New York prima del 2003 non hanno alcun tipo di Cac, e impongono l’assenso di tutti i creditori per procedere a una ristrutturazione. Le obbligazioni emesse tra il 2003 e il 2013 hanno delle Cac che prevedono l’approvazione di una maggioranza qualificata dei due terzi dei creditori per ogni serie per procedere a una ristrutturazione (2). Le obbligazioni emesse dall’Italia prima del 2013 includono anche una clausola che promette di pagare tutti gli obbligazionisti allo stesso modo e in proporzione a tutti gli altri debiti, non limitati alle obbligazioni estere, dovuti dal Tesoro italiano. Una formulazione molto meno incisiva di questa clausola pari passu nei titoli di Stato argentini, che non prometteva espressamente un pagamento uguale e proporzionale, è servita come base per la decisione di un tribunale federale statunitense di bloccare il pagamento da parte del Governo argentino degli interessi sul debito ristrutturato fino a quando non avesse rimborsato per intero i creditori che non avevano aderito alle ristrutturazioni del 2005 e del 2010.
La clausola «pari passu»
Nell’ottica del creditore che non accetta la ristrutturazione, la clausola pari passu è preziosa perché consente a una minoranza ridottissima di creditori, forte della promessa di pagamento uguale, di puntarla come un’arma sul resto dello stock di debito sovrano. In teoria, se tutti gli altri creditori accettano la ristrutturazione, il creditore «irriducibile» che pretende di essere pagato sulla base della clausola pari passu cercherebbe di bloccare i pagamenti a tutti gli altri finché non viene pagato lui. Un’emissione di titoli di Stato da 2 miliardi di dollari nelle mani di un irriducibile potrebbe, in teoria, bloccare pagamenti per migliaia di miliardi di dollari in titoli di Stato e altri debiti. Resta da vedere se un tribunale newyorchese o londinese sarebbe disposto a invocare una sanzione così eclatante in assenza di un comportamento ostentatamente aggressivo dell’Italia verso i suoi creditori.
Per concludere, la ridenominazione e la ristrutturazione possono creare nuovi disallineamenti nel sistema finanziario. Per esempio, se persone, aziende e Governi vedono il loro debito ridenominato in lire, ma le banche continuano a dover pagare prestiti in euro, dollari, sterline e yen, queste ultime rischiano di diventare insolventi dal giorno alla notte. Stime del 2012 indicano che le società finanziarie italiane emettono obbligazioni negoziabili disciplinate da leggi estere in percentuale molto più alta rispetto allo Stato o alle società non finanziarie (il 61 per cento contro, rispettivamente, il 6 e il 40 per cento). L’esposizione in prestiti e strumenti derivati andrebbe ad aggiungersi allo stock di titoli di debito disciplinati da leggi straniere. Sul versante delle attività, le banche italiane hanno una forte concentrazione di titoli di Stato italiani e altre attività nazionali. Questo riflette un disallineamento valutario latente, che potrebbe, in caso di ridenominazione, portare a un collasso del capitale bancario e a una sopravvenienza passiva dello Stato. Un sostegno pubblico per le banche diventerebbe ancora più probabile se la ridenominazione minacciasse effettivamente di rendere subordinate le obbligazioni disciplinate dal diritto italiano detenute da piccoli investitori ignari, e forse addirittura i depositi.
La scarsità, al momento, di informazioni che aiutino a prevedere la magnitudo di questi shock patrimoniali, insieme alle incertezze che circondano il processo di risoluzione delle crisi bancarie, mettono in evidenza il lavoro enorme bisognerebbe fare per ridurre al minimo gli sconvolgimenti causati da un’uscita dall’euro.
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