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Laurea 3+2: perse 10mila matricole, invariate le chance di lavoro

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L'Analisi|a 18 anni dalla riforma dell’università

Laurea 3+2: perse 10mila matricole, invariate le chance di lavoro

Compie 18 anni la riforma che ha cambiato il volto alla nostra università introducendo, come ci chiedeva l’Europa, il «3+2»: una laurea triennale a cui far seguire, in alcuni casi, una biennale specialistica (magistrale) al posto del vecchio diploma di 4 o 5 anni in tutto. Ma non è un compleanno felice. Perché con tutte le attenuanti del caso - prima fra tutte una lunga e profonda crisi economica che ha lasciato il segno anche nelle aule universitarie - si può dire che la missione di quella riforma finora è fallita: le nuove matricole all’università non sono decollate come si sperava, anzi a conti fatti ne abbiamo perse 10mila per strada. E così restiamo fanalino di coda in Europa (peggio di noi solo la Romania) per numero di laureati. Anche l’obiettivo di aumentare le chance di trovare subito un posto di lavoro non è stato raggiunto: è vero che non si possono accostare percorsi universitari così differenti, ma se con il vecchio diploma di laurea trovavano lavoro, a un anno dalla tesi, circa 7 neo dottori su 10 i laureati triennali e magistrali di oggi possono vantare numeri praticamente sovrapponibili.

CHI TERMINA GLI STUDI IN EUROPA
Laureati in alcuni paesi fra i 30-34enni. Dati in % (Fonte: Eurostat)

E che dire dell’abbreviazione dei tempi? Qui un mezzo risultato indubbiamente è stato raggiunto, come mostrano i dati del consorzio AlmaLaurea che ogni anno con i suoi rapporti fotografa nel dettaglio l’identikit dei nostri laureati: se i pre-riforma completavano gli studi in corso solo nel 15% dei casi, nel 2016 la quota è salita al 49%. In pratica uno studente su due finisce il suo percorso nei tempi. Ma l’incidenza dei fuori corso, un fenomeno tutto italiano, resta comunque sempre alta ritardando l’ingresso sul mercato del lavoro: l’età media dei laureati - avverte AlmaLaurea- resta infatti distante da quella dei colleghi europei visto che dopo un decennio è scesa in pratica solo di un anno. In media oggi si conquista la laurea a 26,1 anni: 24,9 per i triennali e 26,9 per i magistrali a ciclo unico e addirittura a 27,5 anni per i magistrali biennali. Insomma il «3+2» è stato un flop, come diceva già nel 2010 l’ex ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini? I numeri sembrerebbero dire proprio di sì.

PRIMA E DOPO LA RIFORMA
Tasso di occupati e dei laureati ad un anno dalla laurea. In percentuale (Fonte: AlmaLaurea; Eurostat)

Alla riforma del 1999 - che con il Dm 509 ha introdotto per la prima volta in Italia la novità del «3+2» e dei crediti formativi - sono seguiti altri provvedimenti legislativi che, tra il 2004 e il 2008, hanno provato a ridisegnare la fisionomia degli atenei. Ma la sostanza non è cambiata, come certificano i dati delle iscrizioni all’università: nell’anno accademico 2000-2001 (l’ultimo con i vecchi diplomi) gli immatricolati erano 284mila. Da allora in poi, dopo un primo boom coincidente con l’avvio della riforma che ha fatto registrare un picco con 308mila matricole nel 2006-2007, c’è stata un’inesorabile discesa. Chiusa l’anno scorso con una mini-risalita a 275mila matricole, che a conti fatti significa comunque 10mila iscritti in meno rispetto a 15 anni prima.

GLI IMMATRICOLATI
Per anno accademico (Fonte: Alma Laurea)

A pesare su questa fuga dall’università ci sono sicuramente anche fattori economici: il calo delle iscrizioni diventa non a caso più rapido negli anni della crisi che ha fatto sentire i suoi effetti fino a praticamente l’anno scorso. Nel frattempo anche le tasse universitarie sono cresciute e il sostegno al diritto allo studio (borse, mense e alloggi) è stata una delle voci tagliate ai budget dell’università (in 5 anni gli atenei hanno subito una sforbiciata del 15% al loro finanziamento). Fattori, questi, che però tutti insieme non bastano a spiegare il trend negativo. Un dato cruciale che spiega molto di questo mezzo fallimento della riforma del «3+2» si legge tra le righe dell’ultimo report di AlmaLaurea. Ed è quello relativo al fatto che oltre la metà dei laureati triennali - ben il 56% – preferisce iscriversi al biennio successivo magistrale piuttosto che provare a trovare un impiego. Risultato: due tesi di laurea, più esami e il rinvio dell’ingresso sul mercato del lavoro. Un dato che mostra con evidenza il basso appeal delle triennali. «Purtroppo da subito è stato diffuso un messaggio fuorviante, invece di parlare erroneamente come è stato fatto di un percorso «3+2» bisognava spiegare che esisteva una laurea triennale che come nel resto d’Europa segna la chiusura di un percorso di studi. E poi per chi desiderava specializzare le proprie competenze si poteva aggiungere una biennale».

I curricula di studi sbilanciati
Invece ancora oggi, e questo è un dato negativo, «oltre la metà dei laureati preferisce continuare a studiare», ricorda Ivano Dionigi, presidente del Consorzio AlmaLaurea ed ex rettore dell’università di Bologna. Il campanello d’allarme doveva suonare da subito quando già nei primissimi anni della riforma l’80% dei laureati di primo livello poi si iscriveva alla magistrale. Ma il trend anche se è rallentato non si è fermato. Perché? «Quando c’è stata la riforma gli atenei si sono trovati a dover riformulare i curricula di studi, ma a causa di cattive pratiche accademiche invece di costruire lauree triennali tagliate su misura delle esigenze dei territori, del mercato del lavoro e dunque della domanda si sono fatti i corsi in base all’offerta. Ha purtroppo prevalso uno spirito di autoconservazione. E così molte lauree triennali non sono appetibili e la crisi ha reso tutto più difficile». Su questo fronte comunque un primo passo si sta facendo. Anche se rinviate di un anno (al 2018) rispetto al previsto le università sono pronte a sperimentare - dopo il via libera del Miur - le prime lauree professionalizzanti che prevedono un anno di teoria, uno di laboratorio e un ultimo on the job con l’obiettivo di formare figure già pronte per fare il proprio ingresso nel mercato del lavoro.

Le colpe però, secondo Dionigi, non vanno attribuite solo alle università. Anche le imprese hanno qualche responsabilità: «Le nostre aziende preferiscono assumere diplomati invece che laureati, anche per pagarli meno. Il nostro Paese vanta il minor numero di laureati tra i propri manager. Significa qualcosa. Pertanto credo che anche le aziende debbano fare un mea culpa per le loro politiche di reclutamento». Infine punta il dito contro la politica: «Mentre il resto del mondo decideva di finanziare di più il settore dell’istruzione durante la crisi noi abbiamo fatto il contrario tagliando. Bisognerebbe ripartire da un grande investimento sul diritto allo studio. Credo addirittura che servirebbe una proposta forte come pensare alla gratuità per le lauree triennali».

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