«Accelerare gli investimenti pubblici a tutti i livelli»; questa è la recente raccomandazione Ue che viene rivolta purtroppo solo alla Germania e che invece servirebbe all’Italia per risollevarsi. Che fare dell’Europa allora?
ItalStay significherebbe fare i conti con un’Euroburocrazia che, nel breve, non intende applicare il risk-sharing per far convergere i cicli economici degli Stati membri; a riprova la riproposizione dell’austerity con il fulgido esempio greco, l’idea di chiudere il Quantitative easing non con gli Eurobond ma con gli ESBies che istituzionalizzeranno un euro a più velocità e le varie proposte di discriminare i titoli di Stato dell’Eurozona in base al rischio sovrano nonostante le conseguenti tensioni sullo spread e sulla tenuta dell’euro stesso.
ItalExit porterebbe a una lira debole e al ritorno dell’inflazione. Numerosi sono gli indizi: oltre 200 miliardi di euro “fuggiti” verso il Nord-Europa, Bund con tassi sempre più negativi che quotano un possibile rimborso in marchi rivalutati rispetto all’euro e specularmente lo spread sui Btp il rimborso in lire svalutate. Tenendo conto dei recovery sui derivati di credito e del valore del tasso di cambio reale rettificato per lo spread (tasso di cambio reale finanziario), la rivalutazione del marco potrebbe superare il 15% e la svalutazione della lira potrebbe superare il 40% specie nella turbolenta fase iniziale che richiederebbe controlli sui capitali e la nazionalizzazione delle banche più esposte. Il nuovo equilibrio sul Forex dovrebbe fare i conti con la globalizzazione, i Paesi emergenti e le nuove istanze protezionistiche.
Italexit allora? Bah! Un ricorso storico in chiave italo-tedesca ci può aiutare.
1979: nasce lo Sme, una banda di oscillazione tra i cambi di alcuni Stati europei che aveva portato un’italianizzazione del tasso di cambio reale del marco, cioè una perdita di valore, e rilanciato così il surplus commerciale tedesco. Per l’Italia un cambio sopravvalutato da difendere con alti tassi di interesse al costo di una maggiore spesa per il servizio del debito pubblico.
1992: il fragilissimo Sme crolla sotto gli attacchi speculativi della finanza. La Germania si ritrova con una moneta rivalutata, tensione sui saldi commerciali, crescita debole e aumento dei tassi. L’Italia inizialmente compressa tra il rischio di default sul debito pubblico e lo spettro di un’inflazione a due cifre tramite austerità, controllo dei salari e lira svalutata vede dal 1994 il rilancio dell’export e della produzione industriale.
L’avvento dell’euro (1997-2007) riavvia l’italianizzazione del cambio reale del marco che questa volta, essendoci un’unica valuta in gioco, si abbina alla germanizzazione dei tassi di interesse italiani. I vantaggi di competitività per l’industria tedesca sono in qualche modo controbilanciati dai vantaggi di finanza pubblica per l’Italia.
Con la crisi del 2008 questo equilibrio salta nonostante l’interventistica straordinaria della Bce. Il vantaggio competitivo cumulato della Germania nel 2017, misurato dal tasso di cambio reale finanziario, supera il 30% e tra spread – che in termini reali non si è mai allontanato dall'annus horribilis (2011) – e risultati delle operazioni in derivati scompaiono i benefici sui conti pubblici per l’Italia.
Mentre la Germania centra qualsiasi parametro (di Maastricht), l’Italia è alle prese con un elevato debito pubblico, un sistema bancario e produttivo in difficoltà, il credit crunch e mette in atto riforme pro-cicliche.
Per costruire una matrice di transizione tra ItalStay e Italexit esaminiamo ora le evoluzioni delle principali variabili macroeconomiche nei due scenari.
Quadro fiscale. ItalStay significa la ratifica del Fiscal Compact così com’è e, quindi, austerity permanente ed un avanzo di bilancio pari al 3,5% del Pil dal 2018 in poi. ItalExit: il riconquistato spazio di spesa dovrebbe fare i conti con l’inflazione e, quindi, con la perdita del potere d’acquisto e l’aumento della pressione fiscale derivanti dalla crescita del reddito nominale.
Investimenti. ItalStay: difficile opporsi alla desertificazione del tessuto produttivo con la flessibilità dello 0,5% del Pil quando ci vorrebbe l’1,5% solo per la manutenzione delle infrastrutture esistenti. 0,5% che, tra l’altro, neanche si riesce a spendere e non solo a causa di regole interne su appalti e burocrazia allo sbando. Il patto di stabilità interno blocca, infatti, la spesa degli enti locali che in Italia contano per oltre il 70% del totale. Italexit: la politica avrebbe gli strumenti per rilanciare gli investimenti pubblici e risollevare l’economia del Paese, a patto che la futura classe dirigente abbia le idee chiare.
Debito pubblico. ItalStay è sinonimo di una qualche forma di ristrutturazione. ItalExit porta diritti alla ridenominazione in una lira debole e, quindi, al default di quella quota di debito pubblico che, sfruttando gli spazi della regolamentazione vigente, potrebbe arrivare a quasi 2/3 del totale. Su questi 2/3 lo Stato conseguirebbe un beneficio – cui corrisponderebbe però un abbattimento della ricchezza finanziaria dei residenti – mentre sul terzo non ridenominato sosterrebbe un costo, onde evitare di incorrere in rischi legali e reputazionali che creerebbero problemi di accesso ai mercati dei capitali per il rifinanziamento del debito.
Debito privato. 700 miliardi di euro di obbligazioni di diritto estero non ridenominabile tra gli attivi di bilancio di banche ed imprese nazionali. L’ItalStay non alleggerirebbe la tensione del rapporto banca-impresa che da motore della crescita del Paese sembra oramai – complice il capitalismo di relazione – distruggere valore attraverso i crediti deteriorati. ItalExit significherebbe concentrarsi nel supporto al sistema bancario innanzitutto attraverso linee di credito in valuta estera, lasciando che il default del debito del settore privato non finanziario sia gestito dal mercato. Misure di ricapitalizzazione forzata (in lire) ed eventuale nazionalizzazione delle banche più esposte sarebbero i logici passi successivi a cui aggiungere drastiche misure di controllo dei capitali.
Salari. L’ItalStay richiederebbe di proseguire le policy di deflazione salariale (stile Jobs act) per recuperare il gap di competitività determinato dallo spread. L’ItalExit farebbe precipitare nel breve periodo il valore reale delle retribuzioni. Gli effetti di lungo termine della svalutazione dipenderebbero dalla capacità di internalizzare la catena del valore della produzione industriale, generando più export e meno import.
Queste stilizzate considerazioni mostrano un quadro indefinito. L’inerzia e soluzioni extend and pretend hanno gestito la Grexit ma non la Brexit e tanto meno potrebbero governare l’Italexit. Il Fiscal compact e il Quantitative easing possono essere ridisegnati per dare il lungo respiro che l’euro merita. Se poi ci accontentiamo di un +0,4% di Pil fatto da consumi finanziati da debito allora aspettiamo fiduciosi nel 2019 Weidmann alla Bce.
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