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Dossier Italia più povera con l’uscita dall’euro

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    Dossier | N. 22 articoliAlla luce del sole

    Italia più povera con l’uscita dall’euro

    I sostenitori di un’uscita dell’Italia dall’area dell’euro pensano di raggiungere almeno due obiettivi. Innanzi tutto una svalutazione competitiva che rilanci la crescita. In secondo luogo di riconquistare i margini di manovra della politica fiscale e monetaria che attualmente sono vincolati dalle regole europee (politica fiscale) o di cui abbiamo perso il controllo diretto in quanto condivisa con gli altri Paesi membri dell’euro (politica monetaria). Altri prima di me su queste colonne hanno affrontato le questioni più di lungo periodo relative a questi temi, quali i vantaggi e limiti nel caso di un Paese come l’Italia di avere una politica monetaria indipendente. Io mi focalizzerò maggiormente sulle implicazioni di breve periodo.

    Cominciamo dalle politiche fiscale e monetaria. La ragione per cui non possiamo fare politiche fiscali espansive non è perché ce lo impedisce l’Europa, ma perché con un debito al 133% del Pil e con una crescita anemica i mercati iniziano a dubitare che il Paese sia in grado di ripagarlo (vedi spread sui titoli di Stato anche verso quelli spagnoli e il recente downgrade di Fitch). Ma, giustamente direbbe il fautore dell’uscita, con anche una politica monetaria indipendente, la Banca d’Italia potrebbe comprare titoli di Stato senza limiti per cui non dovremmo preoccuparci dei mercati e della sostenibilità del debito. Questo è vero, ma per dare un’idea delle quantità, i titoli di Stato in scadenza quest’anno oltre a quelli emessi per finanziare il disavanzo corrente sono circa 400 miliardi, cioè tra un quarto e un terzo della massa monetaria in circolazione nel Paese. Nel giro di qualche anno la moneta in circolazione aumenterebbe in misura enorme e l’inflazione schizzerebbe a livelli estremamente elevati. Vale la pena ricordare che l’inflazione è una tassa, riduce il valore reale dei redditi e dei risparmi, quindi rende più poveri senza che nessun Parlamento l’abbia votata esplicitamente. Insomma non sarebbe una via d’uscita indolore.

    Veniamo ora alla questione della svalutazione competitiva. Primo, siamo certi che la nuova lira si svaluterebbe e non rivaluterebbe? Secondo, assumendo che ci convincessimo della svalutazione, ne vale la pena? Come ogni scelta non ovvia, bisogna pesare vantaggi e svantaggi e arrivare a una valutazione.

    Primo punto, uscendo dall’euro la nuova lira si svaluterebbe? Direi che tutti gli argomenti suggeriscono di sì. Dall’ingresso nell’euro l’Italia ha perso significativamente competitività rispetto ai propri concorrenti sui mercati di sbocco (ad esempio rispetto alla Germania, che è il principale concorrente in un numero di mercati, l’Italia ha perso circa il 10% di competitività se misurata ai prezzi finali e il 40% se misurata ai costi di produzione). Quindi è evidente che un riallineamento verso il basso sarà il risultato ricercato dopo l’abbandono dell’euro. Ciò sarà facilmente raggiunto perché la fiducia nel Paese una volta fuori dalla moneta unica crollerebbe. Se gli investitori percepiscono che il piano dei nostri policy-maker è quello di fare politiche fiscali espansive stampando moneta e creando inflazione, si aspetteranno un ulteriore indebolimento della nostra valuta e staranno lontani dalle attività finanziarie del Paese. Se si genera un’aspettativa di svalutazione, questa sarà inevitabile e potenzialmente anche elevata, perché gli investitori cercheranno di vendere e uscire dall’investimento prima possibile generando una fuga di capitali. Il governo potrebbe contrastare questa tendenza attivando controlli di capitali, ma questo non eviterebbe la svalutazione.

    In teoria i mercati potrebbero puntare su una rivalutazione della nuova lira e investire massicciamente nel Paese. Ma potrebbe un’improbabile aspettativa di rivalutazione della nuova lira autorealizzarsi? Forse sì, ma non ci sarebbe da augurarselo. Dal momento che i sostenitori dell’uscita dall’euro immaginano di stampare moneta per finanziare il deficit di bilancio e magari aumentarlo anche, l’aspettativa di una rivalutazione della nuova lira non sarebbe coerente. L’espansione monetaria condurrebbe a una riduzione dei tassi di interesse domestici e a un indebolimento della valuta. Se invece i mercati si aspettassero politiche monetarie e fiscali fortemente restrittive, la nuova lira potrebbe forse apprezzarsi, ma al costo di causare una recessione. Quale sarebbe allora il vantaggio di un’uscita se invece di ottenere una svalutazione competitiva si andasse incontro con certezza a una recessione?

    Una svalutazione sembra quindi l’ipotesi più appropriata. Quale sarebbe la dimensione è difficile dirlo, dipenderebbe da molti fattori, tra cui il tipo di politica economica che il Paese adottasse dopo l’uscita. Quale il vantaggio in termini di crescita? Sulla base di stime di Prometeia, per ogni punto percentuale di svalutazione del cambio (nominale effettivo) il Pil cresce di circa lo 0,1% già nell’anno in corso. Quindi per 20 punti di svalutazione, la crescita, a parità di tutto il resto, potrebbe essere di 2 punti percentuali più alta il primo anno. Un guadagno non irrilevante. Tuttavia, questo sarebbe ottenuto in larga misura grazie alla riduzione dei salari reali (conseguente alla svalutazione e all’inflazione importata) e non grazie ad aumenti di produttività (e quindi con crescita dei salari reali). Come a dire, cresceremmo di più ma saremmo più poveri. Inoltre, l’esperienza delle ricorrenti svalutazioni italiane degli anni 70 e 80 mostra che questi benefici sono stati di breve periodo e si sono esauriti nel giro di pochi anni perché l’inflazione che ne è seguita ha eroso il vantaggio competitivo acquisito con le svalutazioni. Ciò è coerente con i risultati di alcuni lavori econometrici che mostrano che la crescita nei Paesi avanzati non è sostanzialmente diversa tra Paesi che hanno regimi di cambi fissi e flessibili.

    Se la svalutazione potrebbe darci qualche sollievo temporaneo, l’uscita dall’euro avrebbe invece conseguenze fondamentali per generazioni a venire. Innanzi tutto la possibilità di uscita dall’euro non è prevista dai trattati (mentre lo è l’uscita dalla Ue) quindi si avvierebbe una guerra diplomatica con gli altri Paesi europei e con ogni probabilità dovremmo uscire anche dalla Ue. L’impatto sarebbe immediato sulla nostra capacità di esportare negli altri Paesi europei. Inoltre, bisogna anche considerare gli effetti della svalutazione sulla nostra posizione patrimoniale. Ripagare il debito pubblico in euro diventerebbe impossibile (una svalutazione di solo il 10% lo farebbe automaticamente crescere di più di 200 miliardi, circa il 12% del Pil) e quindi il Paese andrebbe incontro a un massiccio default (che qualcuno chiama “ridenominazione”) con tutte le conseguenze legali ed economiche che ciò comporta. Analogamente, imprese finanziarie e non hanno emesso debiti sotto giurisdizione internazionale (quindi non ridenominabili) per circa di 300 miliardi di euro. Come potrebbero ripagare questi debiti se le loro entrate fossero in una nuova valuta svalutata? Rimando a un lavoro di Prometeia scaricabile al link http://www.prometeia.it/en/events/europe-risks-opportunity-march-2017 per maggiori dettagli su questi aspetti.

    Tutto sommato, mi sembra che l’idea che un’uscita dall’euro risolva i nostri problemi sia solo un miraggio, una scorciatoia che non porta da nessuna parte e impoverirebbe il Paese. Sarebbe più utile utilizzare le nostre energie per risolvere i nostri problemi e contribuire a migliorare la casa comune europea.

    *Lorenzo Forni è professore di Politica Economica nel Dipartimento di Scienze economiche e sociali “Marco Fanno” dell’Università degli Studi di Padova e Segretario Generale di Prometeia Associazione.

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