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Si fa presto a dire protezionismo

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UE, USA, CINA

Si fa presto a dire protezionismo

Si fa presto a dire protezionismo, e indubbiamente così si chiama. Ma quando il mondo diventa sempre più globale senza frontiere né barriere, né un vero level playing field e nemmeno una solida e credibile governance collettiva, quando l’America First di Donald Trump scatta all'offensiva e la Cina lo è da sempre, se l’Europa sta a guardare può solo farsi molto male: alla lunga perdere industrie, mercati, crescita, occupati, benessere. E così, tra una contraddizione e l’altra perché strutturalmente satura di conflitti di interesse tra i suoi paesi-membri, sotto il pungolo di pressioni esterne che la mettono con le spalle al muro, nell’Unione qualcosa si muove. Un primo segnale concreto è arrivato l’altro ieri a Bruxelles con il voto dell’europarlamento, per ora solo a livello di commissione competente, su rafforzamento degli strumenti di difesa commerciale e riforma dell'anti-dumping che scarica l’onere della prova sui paesi terzi produttori e/o esportatori, liberandone le vittime dal compito di dimostrare i danni subiti da sovracapacità o prezzi stracciati altrui. «Niente protezionismo, ma regole del gioco che consentano a tutti di giocare ad armi pari», dice l’eurodeputato Salvatore Cicu, il relatore vincente (35 voti contro 3) del primo round della partita. Che ora passa alla plenaria e poi ai ministri. Il secondo segnale potrebbe arrivare dal vertice europeo dei capi di Governo Ue che si riunisce oggi e domani a Bruxelles. Nel mirino appalti ma, soprattutto, investimenti esteri in chiave di difesa delle industrie strategiche europee. L’idea era nata in febbraio, affidata a una lettera congiunta italo-franco-tedesca mirata a sensibilizzare istituzioni e partners europei su una questione divisiva ma cruciale per la futura competitività dell’Unione sullo scacchiere mondiale.

Al suo debutto sul palcoscenico del vertice Ue, la Francia di Emmanuel Macron intende rilanciarla sfruttando la grancassa di una grande vittoria elettorale. E sognando la miscela vincente tra «un’Europa più protettiva e una politica industriale lucida, realistica e lungimirante» che respinga, perlomeno a parole, il dirigismo nazionalista di eterna tradizione francese per reincarnarsi in un'illuminata strategia europea, cioè nella dimensione minima con cui potersi misurare ad armi pari nell'arena dei gladiatori globali. L’obiettivo più immediato, appoggiato con convinzione dall’Italia di Paolo Gentiloni e con maggiore cautela dalla Germania di Angela Merkel, è porre al vertice la prima pietra di una nuova politica che si doti di «un sistema europeo di minitoraggio degli investimenti esteri, quando necessario, per limitare i rischi alla sicurezza nazionale» dei paesi membri. Sarebbe l’inizio di una rivoluzione copernicana, la smentita dell’Europa aperta e liberista a tutti i costi che, nel mondo che cambia e magari qua e là si arrocca, si adegua convertendosi al concetto di reciprocità dei vantaggi e degli scambi. La prospettiva della svolta guidata dai tre Grandi mette in allarme prima di tutto i paesi scanAavi ma anche baltici e paesi dell’Est, soprattutto quelli con poca industria. Che però difficilmente riuscirebbero a boccarla se i promotori resteranno uniti.

Alla fine sarà vera svolta? A incoraggiare un certo ottimismo c’è un presidente francese giovane e volontarista che, visto che è anche fortunato, incrocia sulla sua strada un potenziale arcinemico come la liberalissima Olanda la quale, a conferma che i tempi e le sensibilità stanno cambiando, ha messo in cantiere una legge per porre limiti ai takeover ostili delle sue imprese se contrari all'interesse nazionale. Jeoren Dijsselbloem, il suo ministro delle Finanze che è pure presidente dell’Eurogruppo, a Lussemburgo si è dichiarato possibilista: «Visto il nuovo atteggiamento dell’America di Trump, perché no?». A oggi in Europa le competenze su investimenti esteri e relative politiche sono nazionali: quelle Ue o non esistono o sono molto limitate. Naturalmente nulla vieta di cambiare. E questi sembrano gli umori dei Governi con industrie da difendere, soprattutto nei settori sempre più strategici della difesa e dell’innovazione tecnologica avanzata. Non a un caso l’Olanda stia rivedendo la linea dopo aver visto Azko Nobel resistere a fatica alla scalata ostile della rivale PPG e Unilever sotto l'attacco della Kaft Heinz. E la Germania sembra disposta a un cero interventismo dopo lo shock della cessione ai cinesi di un gioiello come Kuka Robotics in assenza di mezzi legali per impedirla. E qui sta il punto vero: la parte in commedia della Germania in Europa, l’ambivalenza tra l’interesse strategico a difendere le sue industrie e tecnologie di punta e la fame di nuovi mercati per export e produzione, con la Cina in cima alla lista. Sarà il punto di caduta tra le opposte esigenze tedesche a decidere il destino dell’industria europea, segnare lo spartiacque tra un continente innovativo e competitivo e un’Unione ridotta a diventare il supermercato degli altri.

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