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May non segue le orme della Thatcher

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Europa

May non segue le orme della Thatcher

  • –Valerio Castronovo

È durata pochi mesi l’ambizione di Theresa May che intendeva ricalcare, sia pure a modo suo, le orme di Margaret Thatcher, protagonista, dal 1979 al ’90, della vita politica inglese e della vicenda europea. Ma non si è trattato solo del fatto che le è mancato il tempo necessario per poter dimostrare che stava compiendo i primi passi giusti sulla stessa strada. Ma perché quanto la May ha frattanto messo in luce è bastato a iosa per dare una prova concreta di non possedere alcuna delle doti e delle attitudini che avevano reso “Maggie” un personaggio di assoluto rilievo.

Se la Thatcher s’era imposta fin dal suo esordio soprattutto sul fronte interno procedendo a una serie di privatizzazioni e cominciando a incrinare le prerogative delle Trade Unions, all’insegna di una concezione ortodossa dei princìpi liberisti, non meno irruente s’era presto rivelato il suo atteggiamento in sede europea a presidio degli specifici interessi del proprio Paese. D’altro canto, alla sua ascesa aveva concorso il sodalizio da lei stabilito con Ronald Reagan non solo in nome della tradizionale “relationship” della Gran Bretagna con gli Usa, ma in base all’assunto ideologico, condiviso con il presidente americano, dello “Stato minimo”, in quanto convinta che “l’individualismo competitivo” fosse la molla essenziale per creare più crescita economica e maggiori possibilità di autorealizzazione personali.

Sebbene il free market e la deregulation avessero col tempo mostrato la corda, i postulati sostenuti dalla Thatcher avevano fatto aggio inizialmente dando luogo a una sorta di “rivoluzione neo-conservatrice”, che era valsa in Gran Bretagna ad alleggerire i costi dello “Stato sociale” altrimenti fuori controllo, a risanare i conti pubblici e a ridurre il carico fiscale sui contribuenti, nonché a bloccare la spirale inflattiva.

Quanto all’azione della “Lady di ferro” in sede europea, aveva usato la mano pesante nel far valere le istanze dei propri connazionali e reclamando una riduzione dei contributi di Londra al budget comunitario: finché non ottenne nell’84 la devoluzione a favore della Gran Bretagna di un’adeguata compensazione finanziaria per gli anni successivi sino al ’92. Di lei, che nell’ottobre 1988 aveva attaccato con estrema durezza la prospettiva di una moneta unica europea, ribadendo comunque che la Gran Bretagna si sarebbe tenuta ben stretta la sua sterlina, il presidente francese Mitterrand diceva che aveva «la bocca di Marylin Monroe e gli occhi di Caligola».

Al confronto con la “grinta” della Thatcher, la May non è risultata in pratica che una copia pallida ed effimera, quando ha voluto dare l’impressione che sarebbe stata altrettanto risoluta nel trattare con l’Europa le modalità del divorzio di Londra dalla Ue.

È vero che va attribuita a David Cameron l’idea di indire un referendum sulla permanenza o meno della Gran Bretagna nella Comunità europea (ciò che mai sarebbe passato per la testa alla Thatcher, paga dei vantaggi del mercato unico), ma quale ministro dell’Interno la May aveva attuato in precedenza dei tagli consistenti nelle file e nelle spese dei servizi di sicurezza. Quella sua decisione è stata perciò tirata in ballo, dopo i cruenti attentati susseguitisi negli ultimi mesi a Londra, per spiegare la sconfitta subita dai Tories nelle recenti elezioni politiche.

Inoltre, partita lancia in resta per imporre le proprie condizioni in termini decisamente “hard”, nelle trattative con la Commissione Ue sulla Brexit, la May ha dovuto ora ripiegare su una strategia “soft”. Oltretutto non è detto che riuscirà comunque a rimanere in sella a Downing Street, in quanto non solo il governo che s’accinge a varare (grazie alla decina di voti degli unionisti nordirlandesi) appare destinato a reggere su un fragilissimo equilibrio, ma anche perché è posta sotto tiro da una larga fetta dell’opinione pubblica e da alcuni esponenti del suo stesso partito.

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