Il primo cantiere che Emmanuel Macron intende aprire – subito dopo quello relativo alla moralizzazione della politica, al centro dell’accordo elettorale e di governo con il leader centrista François Bayrou, con una legge che dovrebbe essere presentata in Consiglio dei ministri ancora prima delle legislative di metà giugno – riguarda il diritto del lavoro.
Il nuovo presidente vuole riprendere in particolare due punti che erano presenti nella prima versione della cosiddetta “legge El Khomri” (dal nome del ministro del Lavoro del Governo Valls) e che in realtà era stata largamente ispirata dall’allora ministro dell’Economia, poi escluso dall’operazione in parte perché l’ex premier aveva voluto limitarne la visibilità e in parte perché si riteneva che Macron suscitasse un’eccessiva ostilità dalle organizzazioni sindacali.
I due aspetti – stralciati nella versione finale del provvedimento – riguardano d’un lato la fissazione di tetti alle indennità di licenziamento, il cui ammontare è oggi lasciato alla discrezione dei giudici del lavoro (con quel che ne consegue in termini di incertezza per le imprese, poco propense quindi a stipulare contratti a tempo indeterminato), e dall’altro la questione degli accordi aziendali in tema di organizzazione e orario di lavoro. Attualmente – come appunto previsto dalla “legge El Khomri” – questi accordi devono ottenere il via libera della maggioranza delle sigle sindacali. In caso contrario, queste ultime hanno la possibilità di porre un veto. Com’è successo per esempio nel caso della Smart di Hambach, dove la direzione aziendale – al termine di un lungo e complesso iter – è riuscita a concretizzare un’intesa sulla salvaguardia del sito produttivo (che prevede sostanzialmente un aumento dell’orario settimanale senza un pari aumento delle retribuzioni) soltanto grazie all’escamotage di una variante ai contratti dei singoli dipendenti (soluzione peraltro approvata per referendum dal 96% degli addetti).
La legge alla quale pensa Macron – e su cui ci sarà un confronto con le parti sociali già a fine giugno, primo vero test per il presidente – dovrebbe prevedere la possibilità, anche per il datore di lavoro, di sottoporre a un referendum dall’esito vincolante un accordo che ha ottenuto almeno il 30% dei consensi da parte delle organizzazioni sindacali aziendali.
Scomparirebbe insomma l’obbligo dell’accordo “maggioritario”. E anche se non verrebbe modificata la durata legale dell’orario di lavoro, si tratterebbe di un nuovo colpo, l’ennesimo, alla legge sulle 35 ore. La cui definitiva entrata in vigore (2002) ha appena compiuto 15 anni e che continua a rappresentare una sorta di tabù, di inviolabile mito della sinistra che neppure la destra ha mai osato abbattere.
Per varie ragioni. Perché le 35 ore – con il loro corollario di ulteriori giorni di “vacanza” – sono ormai saldamente radicate nelle abitudini, anche familiari, dei francesi. Perché, quindi, la loro scomparsa avrebbe un impatto economico non irrilevante sull’industria del turismo. Perché nel settore privato l’orario effettivo di lavoro è rimasto sostanzialmente inalterato e quindi consente a gran parte dei dipendenti di incassare le maggiorazioni previste dagli straordinari (che scattano dalla 36ma ora). Perché le imprese, soprattutto le grandi, si sono da tempo organizzate sulla base dell’orario ridotto e cambiare nuovamente questa organizzazione comporterebbe costi e complessità che preferiscono non affrontare. Perché, infine, le aziende ricevono dallo Stato circa 12 miliardi all’anno (in media, dal 2002 a oggi) sotto forma di alleggerimenti contributivi, decisi a suo tempo per attenuare l’impatto delle 35 ore sul costo del lavoro. E a quei 12 miliardi non vogliono rinunciare.
Se insomma sono in molti – a parole – a criticare le 35 ore, nei fatti si tratterebbe di una riforma che raccoglierebbe ben pochi consensi. La destra, ma anche la sinistra e ora il “nuovo centro” di Macron – che ha anche promesso di reintrodurre la fiscalizzazione delle ore di straordinario - preferiscono quindi aggirare l’ostacolo con misure che consentano maggiore flessibilità reale per le imprese, senza toccare il tabù. Così è d’altronde sempre andata in questi 15 anni.
Quanto, per concludere, all’impatto che le 35 ore hanno avuto sull’economia francese, ci sono evidentemente diverse scuole di pensiero. Ma il giudizio non può che essere pesantemente negativo. Persino sul fronte dell’occupazione, la motivazione “forte” dei socialisti nel 1998. L’obiettivo era quello di creare almeno 700mila posti di lavoro, mentre quelli più o meno direttamente imputabili alla riduzione dell’orario sarebbero 350mila, meno della metà. Nel frattempo lo Stato ha sborsato – meglio, non ha incassato – circa 180 miliardi in agevolazioni fiscali e contributive. A causa di un maggior costo del lavoro (solo parzialmente compensato dalle agevolazioni) la Francia ha perso competitività – come dimostrano tutti i dati, a partire da quello sulle quote di export francese nell’eurozona e tra i Paesi della zona euro verso l’estero – proprio quando la Germania stava riorganizzando la propria. Le conseguenze sono state devastanti in alcuni comparti dell’amministrazione pubblica, in particolare la sanità. La spesa in personale degli enti locali, che hanno assunto alla grande, è esplosa. I margini delle imprese si sono ridotti (e stanno risalendo solo ora grazie ai 40 miliardi di “sostegno” pubblico). E poi ci sono i danni immateriali e non misurabili: il fatto che nella testa della gente (in un Paese dove a 30 anni già si inizia a vedere la pensione come una liberazione) si sia installata l’idea che lavorare meno è bello; il clima di sfiducia, di sospetto, di diffidenza, infine, che contraddistingue da allora i rapporti tra imprese e Stato.
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