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Chi è rimasto all’età del carbone?

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L'Analisi|AMBIENTE E SVILUPPO

Chi è rimasto all’età del carbone?

Nelle immortali parole dell’allora premier britannico Harold Wilson, una settimana è un periodo di tempo molto lungo in politica. Gli eventi con implicazioni apparentemente inequivocabili potrebbero ben presto rivelarsi tutt’altro. Questo cambio di rotta politica sembra già fare al caso della rinuncia da parte del presidente americano Donald dell’accordo di Parigi sul clima.

Con il prossimo meeting del G20 che si svolgerà ad Amburgo, in Germania, tra pochi giorni, la decisione di Trump di far uscire gli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi non farà che isolare ed estraniare gli Usa all’interno della comunità internazionale. E mentre gli alti funzionari americani come il consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster e il direttore del Consiglio economico nazionale Gary Cohn sostengono che gli americani non hanno motivo di allarmarsi, perché non esiste di fatto alcuna “comunità internazionale”, il resto del mondo sa bene come stanno le cose – e così anche la maggior parte degli americani.

L’annuncio di Trump ha confermato ciò a cui si stanno preparando molti leader mondiali: l’impegno produttivo americano nel mondo è accantonato, almeno per la durata di questa amministrazione. Ciò che più colpisce dell’inequivocabile risposta globale alla decisione di Trump è la coerenza. Nello spettro politico, e dal Nord al Sud del mondo, il messaggio è stato chiaro: la decisione di Trump è sbagliata per il mondo e, ovviamente, anche per l’America stessa. Quantomeno, gli Usa finiranno nelle retrovie sul fronte della corsa globale per un futuro a basso contenuto di carbonio, con profonde conseguenze per la performance economica e standing globale dell’America stessa.

La realtà sospesa di Trump
Questo secondo punto è stato enfatizzato da imprenditori americani, governatori di vari stati e sindaci cittadini che hanno creato il movimento #WeAreStillIn. Nel giustificare il suo ripudio dell’accordo di Parigi, Trump sostiene di essere stato eletto per «rappresentare i cittadini di Pittsburgh, non quelli di Parigi» – e qui scatta l’applauso del pubblico, nel Rose Garden zeppo di membri dello staff della Casa Bianca. In risposta, il sindaco di Pittsburgh Bill Peduto annuncia quasi immediatamente che la sua città, che ha compiuto una notevole transizione dall’essere una “città dell’acciaio Usa” a centro sanitario, di ricerca e istruzione (e che ha votato in massa per Hillary Clinton), sta passando all’energia rinnovabile al 100% e ribadisce il proprio impegno rispetto all’accordo di Parigi.

Non è un mistero la quasi universale opposizione alla decisione di Trump. I leader mondiali sono sempre più consapevoli che non si possa più sfuggire alla necessità di affrontare il cambiamento climatico. La loro credibilità politica è a rischio. Anche i neofiti lo hanno capito.

Il presidente francese Emmanuel Macron, ad esempio, sapeva che per cementare la propria posizione sulla scena internazionale doveva rapidamente prendere una posizione sulle questioni che ora definiscono la politica globale. Il cambiamento climatico – che collega ogni Paese sulla Terra e ha profonde implicazioni per la pace, sicurezza e il commercio internazionale – era la scelta ovvia. Quindi, per la prima volta nella storia, un presidente francese ha inviato un messaggio in inglese dall’Eliseo. In un unico discorso, chiudendo con la frase «make our planet great again» (rendiamo di nuovo grande il nostro pianeta) Macron ha sfruttato lo zeitgeist globale e abbracciato il desiderio di progresso espresso dal mondo.

Il rifiuto di Trump rispetto alla cupa realtà futura che l’accordo di Parigi tenta di evitare lo mette in conflitto sia con l’opinione politica internazionale che con la visione economica e sociale di alcuni dei suoi stessi colleghi politici. È semplicemente impossibile razionalizzare il discorso di Trump al Rose Garden se si accetta la ben radicata realtà non solo del cambiamento climatico, ma anche delle implicazioni che il negare quella minaccia implica per investimenti, innovazione, sviluppo rurale e urbano, sanità, gestione della crisi, alimentazione e risorse idriche, filiere industriali e sistemi energetici.

Sostanzialmente, la rottura con Trump rispetto all’accordo di Parigi sul clima segna una linea di separazione tra una politica basata su minacce reali e fondate e un approccio basato sulla distorta realtà dei “fatti alternativi” e della fervida immaginazione ideologica. La delegittimazione delle infrastrutture politiche e mediatiche che ha sospeso la realtà per Trump e i suoi sostenitori potrebbe rivelarsi un prerequisito per la ripresa di un costruttivo ruolo Usa nel discorso globale non solo sul cambiamento climatico ma su un’infinità di altre questioni.

Rendere di nuovo l’America isolata
È probabile che la discussione sulle implicazioni commerciali dell’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi inizi ai margini dell’imminente meeting del G20. La politica commerciale si crea quando si allinea un numero adeguato di interessi del mondo. Con tutte le maggiori economie (diverse dagli Usa) focalizzate sulla riduzione delle proprie emissioni in linea con l’obiettivo dell’accordo di mantenere l’incremento della temperatura globale «ben al di sotto» del 2º Celsius, e compiendo qualsiasi azione tesa a raggiungere l’obiettivo dell’1,5º C, l’allineamento della politica commerciale è solo una questione di tempo.

Se l’amministrazione Trump si ostina a negare la realtà, investendo in una decadente industria del carbone invece che riqualificando la sua forza lavoro per il crescente mercato dei rinnovabili, i risultati della politica commerciale dell’allineamento globale su Parigi andranno contro gli interessi Usa. È per questo che così tante aziende globali attive anche negli Usa si sono esposte in supporto dell’accordo di Parigi.

Mentre c’è ancora molto da fare in termini di allineamento dell’economia globale con gli obiettivi dell’accordo di Parigi, la rivoluzione economica che è al centro della lotta contro il cambiamento climatico è irrefrenabilmente in atto. La rivoluzione globale dei trasporti – spinta dall’elettrificazione di auto, bus e camion – sta procedendo a un passo più rapido di quanto si potesse immaginare appena un anno fa; ma le infrastrutture per l’elettricità pulita necessarie per supportarla devono espandersi a un ritmo più veloce. I progressi tecnologici nella produzione di acciaio e sostanze chimiche e nei materiali edili a basso contenuto di carbonio sono fondamentali, come lo è la rivoluzione nell’uso del territorio per ridurre le emissioni e prepararsi agli effetti sfavorevoli del cambiamento climatico, che stanno già colpendo l’agricoltura a livello mondiale.

Tutto ciò richiede un maggiore aggiustamento delle strategie per gli investimenti, e chi possiede la ricchezza inizia a comprendere questa realtà. I vertici di ExxonMobil, ex casa del Segretario di Stato americano Rex Tillerson e tra i principali finanziatori del negazionismo del cambiamento climatico, hanno recentemente dovuto fronteggiare una rivolta da parte dei propri azionisti. Gli investitori della società chiedono di prendere in considerazione il fatto che i loro prodotti primari, petrolio e gas, debbano essere gradualmente e completamente eliminati nei decenni a venire.

Europa alla ribalta
Dalla sfortunata conferenza sul clima svoltasi a Copenhagen nel 2009, quando il presidente Barack Obama si riunì con le controparti provenienti dalla Cina e dall’India per negoziare un accordo l’ultima sera delle tumultuose trattative, la natura multipolare degli affari esteri è diventata sempre più ovvia. Allora l’Unione europea fu lasciata in un’altra area dell’edificio a chiedersi dove fosse la festa; ma prima che si svolgesse la conferenza sul clima a Parigi nel 2015, l’Ue aveva speso diversi anni a ricostruire i propri legami internazionali, contribuendo a superare la vecchia logica Nord-verso-Sud nei dibattiti sul clima e anche approfondendo le relazioni diplomatiche e commerciali con i nuovi poli di influenza mondiale in Asia, Africa e Sud America.

A Parigi, mentre l’accordo prendeva forma, i Paesi europei rivestivano un ruolo fondamentale nel costruire una «coalizione dalla forte ambizione» che mantenesse la porta aperta agli elementi chiave dell’accordo, come l’impegno a ridurre le emissioni di gas serra a zero negli anni 2050. Sia l’accordo stesso che la successiva e rapida ratifica furono portati a termine sapendo che gli Usa avrebbero potuto eleggere Trump e che lui avrebbe tentato di distruggerlo. L’Ue sapeva di doversi riprendere il proprio posto al tavolo prima di un allontanamento degli Stati Uniti.

Trump sembra incapace di qualsiasi altra visione del mondo che non sia la prospettiva antagonista descritta da McMaster e Cohn. Da tale visuale, «il mondo non è una ’comunità globale’ ma un’arena in cui nazioni, attori non governativi e imprese partecipano e competono per un vantaggio».

Questa visione sarà presto superata dalla realtà. Esattamente come il mondo ha rifiutato il mendace ed errato ragionamento di Trump in merito alla sua decisione di abbandonare l’accordo di Parigi sul clima, ha altresì rifiutato l’analisi della politica estera della sua amministrazione. Il vuoto lasciato dal fatto che l’America si sia rifugiata nell’isolazionismo, e le risposte spesso paranoiche di Trump agli eventi internazionali nei suoi annunci in 140 caratteri, sarà riempito non da un singolo competitor, ma dall’opinione diffusa per cui la cooperazione sia più sicura dell’isolazionismo. La politica estera imprevedibile e incoerente, soprattutto da parte del player globale più potente, implica che il resto del mondo deve muoversi rapidamente per consolidare le proprie relazioni ed evitare di sprofondare nel caos.

Con i due ex poli della Guerra Fredda ora controllati da leader a quanto pare propensi al disordine globale, quelle relazioni saranno cruciali. Un chiaro esempio è il rinnovato vigore della relazione Ue-Cina. Nel primo paragrafo della dichiarazione al termine del summit Ue-Cina, svoltosi pochi giorni dopo l’annuncio di Trump, i due fronti hanno ribadito il proprio impegno ad implementare l’accordo di Parigi e ad incentivare la cooperazione nelle politiche energetiche. La dichiarazione allora proseguì per discutere di commercio, investimenti, sicurezza e molte altre questioni.

Il contrattacco del G20
Per i capi di stato e di governo, un significativo impegno nei confronti dell’azione sul clima, con l’accordo di Parigi come architettura primaria, è diventato indispensabile ai fini della credibilità in politica estera. E ciò sarà più evidente nel meeting del G20 che si terrà ad Amburgo in luglio, che dovrebbe segnare un punto di svolta, mentre il mondo passa ai fatti: l’accordo prima difeso ora deve essere implementato.

La maggior parte dei Paesi del G20 hanno reiterato il proprio supporto in merito all’accordo di Parigi. Ma non tutti hanno ancora agito in tal senso a livello di leadership nazionale. Un momento vitale sinora è stato quanto dichiarato dalla cancelliera tedesca Angela Merkel all’indomani del meeting del G7 svoltosi a maggio in Sicilia, ossia che l’Europa non può più «fidarsi completamente degli altri» e dovrà «prendere il destino nelle proprie mani». Merkel, Macron e il primo ministro italiano Paolo Gentiloni hanno deciso di rilasciare una dichiarazione congiunta in risposta diretta a Trump sulla questione Parigi. Ma la premier britannica Theresa May ha declinato il loro invito ad unirsi (pur facendo notare in un secondo momento che fosse «delusa» dalla decisione di Trump su Parigi).

Il Regno Unito potrebbe trovarsi disorientato con alcuni compagni di viaggio molto poco prevedibili se persisterà nell’attuale percorso della May di abbracciare Trump e altre cause populiste, mentre la posizione unita dell’Ue rafforzerà quella del G20. Al meeting di Amburgo, i leader non solo si uniranno e confermeranno il proprio supporto all’accordo di Parigi, ma faranno anche progressi concreti, soprattutto per quanto riguarda le regole di informativa finanziaria relative al clima e su come le banche multilaterali per lo sviluppo allineeranno i propri investimenti agli obiettivi dell’accordo.

Il cambiamento climatico è l’ultimo esempio di un problema che non può essere affrontato dall’approccio hobbesiano dell’amministrazione Trump agli affari mondiali. C’è solo un’atmosfera, e non ha confini, e per citare Sharan Burrow, il segretario generale della International Trade Union Confederation, «non ci sono posti di lavoro su un Pianeta morto».

“Non ci sono posti di lavoro su un Pianeta morto”

Sharan Burrow, segretario generale della International Trade Union Confederation 

Mentre ci avviciniamo al summit del G20 di Amburgo, e attraverso i prossimi round di meeting bilaterali e multilaterali che scuotono i programmi dei leader mondiali, la divisione sull’accordo di Parigi diverrà parte integrante della politica globale e inizierà a ridefinire molte delle questioni che collegano la comunità internazionale. Il cambiamento climatico non è certamente l’unico tema che intorbidirà le relazioni internazionali nei prossimi anni. Ma la risposta unita al rifiuto di Trump dell’accordo di Parigi ha dimostrato che si tratta di una delle questioni determinanti della nostra era – e che, con buona pace di McMaster e Cohn, esiste davvero una comunità internazionale. Con o senza gli Stati Uniti, la linea nella sabbia sul fronte del cambiamento climatico che è stata tracciata diverrà scolpita nella roccia.

(Traduzione di Simona Polverino)

Laurence Tubiana, ex ambasciatrice francese per Convenzione quadro Onu sul cambiamento climatico, è Ceo della European Climate Foundation e docente presso l’università Sciences Po di Parigi.

Copyright: Project Syndicate, 2017.

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