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Quando la fortuna volta le spalle ai populisti

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L'Analisi|scenari globali

Quando la fortuna volta le spalle ai populisti

Niccolò Machiavelli credeva che si potesse diventare principe «per virtù o per fortuna». Nel secondo caso, i principi che detengono il potere «con poca fatica diventano, ma con assai si mantengono».

Machiavelli avrebbe potuto così descrivere la premier britannica Theresa May e il presidente americano Donald Trump. Si sono entrambi convinti della loro principesca virtù, pur salendo al potere soprattutto per fortuna.

Nulla togliendo alla lunga carriera di politico e pubblico funzionario, la May non è diventata premier tramite elezioni, ma perché gli elettori britannici hanno deciso di un esiguo margine di abbandonare l’Unione europea, portando alle dimissioni del suo predecessore del partito conservatore, David Cameron. Allo stesso modo, Trump deve probabilmente la sua presidenza ai sotterfugi russi per suo conto e a un colpo di fortuna del Collegio elettorale – che è stato di fatto ideato per bloccare i candidati non qualificati come lui. Ora lui guida un Paese il cui popolo appoggiava la sua avversaria di un margine pari a tre milioni di voti.

Nelle ultime settimane, sia la May che Trump hanno patito seri insuccessi politici. Nelle recenti elezioni generali, indette dalla stessa May in aprile – quando i Conservatori registravano un vantaggio di 20 punti nei sondaggi d’opinione – la May è riuscita a perdere la maggioranza parlamentare del partito. Rieletta per un soffio, tenta ora di trovare una direzione con un parlamento in gergo definito “hung” (appeso).

Nel frattempo, a Washington DC, l’ex direttore dell’FBI James Comey, rendeva testimonianza pubblica davanti alla Commissione Intelligence del Senato, in cui accusava Trump: «Mente, in parole povere» per giustificare il licenziamento di Comey. L’audizione in Senato, che ha attirato quasi 20 milioni di telespettatori, è stata solo l’ultima di una lunga serie di colpi che hanno reso Trump una virtuale anatra zoppa appena sei mesi dopo il suo insediamento.

Più in generale, i recenti eventi, non da ultimo Emmanuel Macron eletto presidente francese, e la schiacciante vittoria del suo nuovo partito nell’elezione parlamentare di questo mese, hanno portato molti a chiedersi se la politica populista che ha definito il 2016 sia contrapposta da una pari e opposta forza nel 2017. Gli analisti di Project Syndicate affrontano in maniera diretta questa e altre domande. Prese insieme, le loro analisi hanno fatto luce sugli ultimi accadimenti che definiscono un’era di profonda incertezza politica in tutto il mondo.

Dissentire su “Il Popolo”
Sebbene in pochi avessero previsto il risultato delle ultime elezioni del Regno Unito, qualcuno l’aveva previsto. Jacek Rostowski, ex vice primo ministro della Polonia, ricorda ai lettori che sei mesi fa, aveva preannunciato che «il governo della May non sarebbe durato oltre maggio di quest’anno». Rostowski basava la sua predizione sulla logica (o illogica, a seconda del punto di vista) politica della decisione del Regno Unito di uscire dall’Ue. Prima o poi, afferma Rostowski, il popolo britannico si renderà conto che «la “soft Brexit” che gli era stata promessa è impossibile».

In quell’articolo, Rostowski faceva notare che la coalizione del “Leave” «comprende due fazioni incompatibili». Inevitabilmente, «i prosperi pensionati perlopiù della middle-class che intendono abbandonare l’Ue perché pensano che sia troppo burocratica e protezionistica» si troveranno contro gli «elettori soprattutto della working-class che vogliono divorziare dall’Ue perché favorevoli a un maggior protezionismo», e la May non è riuscita a compiacere nessuno. «Gli elettori britannici non si sono fatti abbindolare», sostiene Rostowski. «Si sono resi conto di essere stati manipolati – e si sono vendicati alle urne».

Di fatto, mentre si avvicina il 19 giugno, la data iniziale formale dei negoziati per la Brexit, il governo della May è stato sfuggente e sordo nei confronti degli elettori britannici quanto lo è stato verso l’Ue. La May ha pressoché chiuso la deliberazione pubblica sulla Brexit, fa notare Rostowski, definendola «essenzialmente un accordo concluso», sebbene non si tratti di nulla del genere.

“Gli elettori britannici non si sono fatti abbindolare. Si sono resi conto di essere stati manipolati – e si sono vendicati alle urne”

Jacek Rostowski, ex vice primo ministro polacco 

In modo analogo, Ngaire Woods, rettore della Blavatnik School of Government dell’Università di Oxford, lamenta il fatto che il governo della May si sia comportato come se dovesse «entrare in guerra». Ha mantenuto «i suoi piani segreti» e ha intrapreso la «politica del rischio calcolato», riflessa nel «grido di guerra secondo cui “meglio nessun accordo che un pessimo accordo”».

La decisione della May di affidarsi alla logica del non detto, secondo lo psichiatra Raj Persaud e secondo Adrian Furnham, professore di psicologia presso lo University College London, ha mandato un chiaro messaggio agli elettori britannici. Persaud e Furnham citano una ricerca condotta da Alistair Smith della New York University, che ha analizzato «i dati dell’affluenza alle urne per le elezioni britanniche e i risultati risalenti al 1945». Le elezioni anticipate, così rileva Smith, tendono a erodere il supporto popolare di un primo ministro, perché, secondo Persaud e Furnham, equivalgono a «una mano di poker psicologico in cui l’elettorato spesso scopre il bluff di un leader».

La dinamica, per quanto illogica, è chiara: un premier «dispone di maggiori informazioni dell’elettore medio sulle prospettive future del Paese», fanno notare Persaud e Furnham, e la May è stata sicuramente «informata sulle condizioni economiche di breve termine del Regno Unito, e sul probabile esito delle trattative sulla Brexit». Quindi, secondo la teoria di Smith, «indicendo le elezioni tre settimane prima del termine fissato», la May ha inconsapevolmente segnalato agli elettori di avere in mano poche carte, e di essere convinta della capacità del proprio governo di fronteggiare le sfide che l’aspettano.

Un duro atterraggio per la Brexit?
Molte di queste sfide riguardano effettivamente l’economia del Regno Unito, che secondo Diane Coyle dell’Università di Manchester, navigherebbe in acque agitate anche senza il disagio aggiuntivo derivante dalla Brexit. Tra le altre cose, il Regno Unito soffre di un persistente «abisso tra i vincitori e i perdenti del commercio e della tecnologia» e di una produttività «incredibilmente bassa» – ora il «16% più bassa della media del G7».

Inoltre, osserva Rain Newton-Smith, capo economista della Confederation of British Industry, «le dinamiche in evoluzione del mercato del lavoro» implicano che «con buona probabilità quest’anno i guadagni salariali medi non supereranno il 2,5%». Di fatto, con l’inflazione «destinata a raggiungere un picco prossimo al 3%», rileva Newton-Smith, «è probabile che i redditi medi delle famiglie restino stabili o registrino persino una contrazione, mettendo a rischio il cruciale motore della spesa al consumo dell’economia britannica».

Le scarse condizioni economiche probabilmente comprometteranno la già instabile posizione della May nelle settimane e nei mesi a venire. Ovviamente, un modo con cui la May potrebbe migliorare le prospettive economiche del Regno Unito, asserisce Anatole Kaletsky di Gavekal Dragonomics, sarebbe quello di abbandonare l’“hard Brexit”. Un accordo simile a quello della Norvegia, sostiene Kaletsky, «è l’unico modello in grado di attirare pubblico e appoggio politico in Gran Bretagna, senza mettere a rischio i principi dell’Ue o infliggere gravi costi economici a una delle due parti». Con il modello norvegese, il Regno Unito resterebbe «fuori dalle strutture istituzionali dell’Ue», ma accetterebbe «gran parte degli obblighi e dei costi dell’adesione all’Ue in cambio dei benefici commerciali del mercato unico».

“È probabile che i redditi medi delle famiglie restino stabili o registrino persino una contrazione, mettendo a rischio il cruciale motore della spesa al consumo dell’economia britannica”

Rain Newton-Smith, capo economista della Confederation of British Industry 

Kaletsky fa notare che gli «accordi istituzionali per questa opzione esistono già, sotto forma di Area Economica Europea», e pensa che «negoziare la Brexit basandosi sull’adesione all’AEE sia un risultato perfettamente accettabile e persino accolto con favore» dai membri dell’Ue. Dopo tutto, l’adesione all’AEE escluderebbe «la scelta selettiva di benefici Ue da parte della Gran Bretagna».

Forse. Ma come osserva Mark Leonard del European Council on Foreign Relations, «il dibattito sulla Brexit tende a tirare fuori i peggiori istinti delle élite europee». E poiché «l’unica cosa su cui riescono ad accordarsi gli stati membri dell’Ue» è che qualsiasi accordo finale sulla Brexit debba scoraggiare altri Stati membri dal seguire il loro esempio, i negoziatori britannici non dovrebbero aspettarsi di ricevere una facile via di uscita.

La stella cadente d’Europa
Per Leonard, una questione ancora più grande per gli europei è se riescano a stare dietro Macron, e «guardare avanti in cerca di un nuovo progetto, invece che indietro alle vecchie battaglie». Fortunatamente, questa potrebbe essere un’opportunità di riforma. Dopo le sconfitte populiste in Austria nei Paesi Bassi, la vittoria di Macron fornisce un’ulteriore prova che, come suggerisce Ian Buruma del Bard College, «Trump potrebbe fungere da deterrente, invece che da incentivo, per l’estremismo populista». In modo analogo, Harold James di Princeton sospetta che «l’esperienza degli Stati Uniti da quando è stato eletto Donald Trump» possa aver inoculato gli europei contro il contagio del populismo di estrema destra.

Eppure il collega di James a Princeton, Jan-Werner Mueller, respinge la grande storia di un’“ondata” populista che si infrange sulle spiagge occidentali e ora indietreggia. Ciò che gli esperti descrivono come “populismo”, sostiene Mueller, è realmente solo conservatorismo dell’establishment coniugato con l’insistenza di una «illegittimità fondamentale di tutti gli altri candidati al potere».

Le figure come Trump e l’ex leader del Partito per l’indipendenza del Regno Unito Nigel Farage sono populisti perché «dichiarano di essere gli unici a rappresentare il “popolo vero”», fa notare Mueller. Ma hanno altresì «avuto bisogno dell’aiuto di conservatori consolidati come Boris Johnson e Michael Gove» e di repubblicani come Newt Gingrich e Rudy Giuliani, rispettivamente. «Ad oggi», fa notare Mueller, autore di What Is Populism?, «nessun populista di estrema destra è salito al potere in Europa occidentale o nel Nord Europa senza la collaborazione delle élite conservatrici consolidate».

Sicuramente anche Macron è salito al potere come una specie di outsider degli insider. Anche se Macron «proviene dalla sinistra centrista moderna favorevole alla globalizzazione», scrivono Kemal Derviş e Caroline Conroy del Brookings Institution, è riuscito a superare «il partito tradizionale e le barriere di identità politica, raggiungendo gli elettori di tutto lo spettro politico, eccetto coloro di estrema sinistra e di estrema destra». L’approccio di Macron rappresenta ciò che James chiama «populismo centrista, che mischia il supporto alla globalizzazione con una sana dose di protezione sociale e un generoso pizzico di patriottismo».

“Nessun populista di estrema destra è salito al potere in Europa occidentale o nel Nord Europa senza la collaborazione delle élite conservatrici consolidate”

Jan-Werner Mueller, università di Princeton 

Ma non tutti i commentatori di Project Syndicate concordano sul fatto che Macron possa fornire ciò che ha promesso, anche se accolgono con favore la sua vittoria. Mueller sostiene che etichettare ogni elezione come «una vittoria o una sconfitta per il populismo» sia «semplicistico», perché anche quando i populisti hanno perso, hanno costretto i candidati conservatori ad adottare parti della loro agenda. In modo analogo, Slawomir Sierakowski dell’Institute for Advanced Study in Varsavia non crede che l’elezione di Macron segni «la sconfitta del populismo in Europa», avvertendo che l’approccio di Macron alla politica «arriva con la propria serie di problemi».

Sierakowski, come Mueller, teme che l’enfasi riposta sulle singole elezioni giunga al costo di perdere di vista «i fattori strutturali – tra cui la globalizzazione economica in assenza di globalizzazione politica – su cui si fonda l’ascesa del populismo» in primo luogo. In un articolo a parte, anche Buruma, condivide tale preoccupazione. «Mentre questa volta la Francia ha schivato la pallottola xenofoba», sostiene, «il polverone non si è ancora placato. Destra e sinistra potrebbero essere in mutamento, ma le vecchie divisioni emerse dopo il 1789 sono ancora lì, forse più che mai».

Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy disapprova categoricamente. Macron, crede Lévy, rappresenta l’“apogeo” di un cambiamento che è iniziato «nei lontani campi di sterminio della Cambogia di 40 anni fa», dove la «ragione rivoluzionaria e l’immaginazione» che caratterizza la politica occidentale dal 1789 «sono state fatte a pezzi e neutralizzate». Senza la “stella fissa” della rivoluzione, non può esserci né sinistra né destra. Per Lévy, Macron è quindi una figura della storia mondiale, un leader che «ha visto quello che i suoi predecessori avevano solo intravisto», e la cui vittoria lo rende «lo strumento o il complemento di un evento di lunga data che prende forma davanti ai nostri occhi».

Che Macron sia o no all’altezza delle aspettative, per Philippe Aghion del Collège de France e Benedicte Berner di Sciences Po una cosa è certa: Macron sarà nella posizione di conseguire vittorie ben più che simboliche. Come Derviş e Conroy, anche Aghion e Berner sono del parere che la presidenza di Macron offra la migliore opportunità «nella memoria recente» – e forse dai tempi di Charles de Gaulle – «per riformare l’economia della Francia con modalità che rilanceranno la crescita trainata dall’innovazione e al contempo garantiranno migliori livelli di protezione sociale e istruzione per i cittadini francesi».

Il mondo contro Donald Trump
Inoltre, Macron non sarà da solo nella sua ricerca tesa a difendere i valori occidentali. Come ci ricorda l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, troverà un partner formidabile nella cancelliera tedesca Angela Merkel, che, come Macron, intende «stabilizzare l’Eurozona, rilanciare la crescita economica e rafforzare la sicurezza dell’Europa con un controllo comunitario delle frontiere e una nuova politica sui rifugiati». E come Macron, la Merkel ha pubblicamente redarguito Trump e altri leader populisti. Dopo l’incontro con Trump a un recente summit del G7, ha dichiarato la fine dei «tempi in cui potevamo completamente fare affidamento sugli altri», e ha ribadito agli europei: «Prendiamo il nostro destino nelle nostre mani».

Come Fischer si affretta a precisare, prendere il controllo non significa muoversi da soli. L’amministrazione di Trump sta, di fatto, fornendo all’Europa e al resto del mondo molte opportunità di cooperazione, anche quando tenta di compromettere gli accordi multilaterali. Come dimostra il tentativo globale di combattere il cambiamento climatico. Sicuramente, come sostiene Jeffrey D. Sachs della Columbia University, «la decisione di Trump di far ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima non è solo pericolosa per il mondo, è anche sociopatica», dal momento che «Trump sta volontariamente causando danni agli altri». Ma allo stesso tempo, la decisione di Trump ha unito anche potenze rivali attorno a una singola causa come mai prima.

Ad esempio, due dei maggiori Paesi del mondo che emettono gas serra – Cina e India – hanno entrambi risposto all’annuncio di Trump riaffermando i propri impegni per ridurre le emissioni di diossido di carbonio e passare a fonti di energia rinnovabile. Come osserva Shashi Tharoor, presidente del Comitato permanente Affari esteri alla Lok Sabha (la camera bassa del parlamento indiano), l’India un tempo veniva considerata un partner inaffidabile nella lotta mondiale contro il cambiamento climatico. Ma il primo ministro indiano Narendra Modi ora promette di andare «ben oltre l’accordo di Parigi».

Le mosse isolazionistiche di Trump sono sicuramente ben accolte dal suo stratega capo, Steve Bannon, architetto del nazionalismo “America first” che ha fatto pressioni per il ritiro dall’accordo di Parigi. Ma, contrariamente alle intenzioni di Bannon, Trump sta isolando solo se stesso e la propria amministrazione – e non l’America. «Questo è un buon momento per ricordare che gli Stati Uniti sono un sistema federale, e non uno stato unitario con un governo centrale e onnipotente», afferma Barry Eichengreen dell’Università di Berkeley. I governi statali e locali possono intraprendere misure volte ad «opporsi alla contrazione di programmi sociali e alla revoca della normativa federale progressista» auspicate da Trump.

Molti stanno già agendo. «Il sindaco di Pittsburgh Bill Peduto e il sindaco di Parigi Anne Hidalgo hanno ora unito le forze per combattere il cambiamento climatico», osserva l’ex premier svedese Carl Bildt, così «smentendo l’affermazione di Trump secondo cui sarebbe stato eletto per “rappresentare Pittsburgh, e non Parigi”». Più in generale, «l’azione climatica a livello di Stati e città sta attraversando gli Stati Uniti, crescendo in portata ed ambizione», dichiara Laurence Tubiana di Sciences Po. Solo la scorsa settimana, il governatore della California Jerry Brown si è incontrato con il presidente cinese Xi Jinping per discutere su come la California – la sesta più grande economia del mondo – possa collaborare con la Cina per ridurre le emissioni e sviluppare green technology.

Allo stesso tempo, molti capi esteri, secondo l’ex ministro degli Esteri messicano Jorge G. Castañeda, stanno iniziando a dubitare se «allacciare realmente dei rapporti con Trump». Come osserva Castañeda, «il presidente del Messico Enrique Peña Nieto ha posticipato un incontro con Trump a data da destinarsi, e anche altri Paesi hanno messo in stand by i rapporti con gli Usa». Con l’escalation di scandali legati a Trump, e con l’indice di gradimento che continua a scendere, è sempre meno probabile che «la sua presidenza riesca a sopravvivere all’intero mandato di quattro anni».

Forse la cosa più preoccupante, dalla prospettiva di Trump, è che i mercati stanno perdendo la pazienza, come dimostra il calo nel valore del dollaro Usa registrato da aprile. Jim O’Neill, ex presidente di Goldman Sachs Asset Management, sospetta che i mercati dei cambi abbiano costruito un premio al rischio sul dollaro, che potrebbe riflettere i timori che Trump «persegua una deliberata politica di isolazionismo». Considerata l’«l’elevata dipendenza degli Usa dal capitale estero netto», spiega O’Neill, un’amministrazione Trump che continua ad «attaccare briga e a battere in ritirata dal mondo» potrebbe spingere gli Usa in un aggiustamento strutturale profondamente doloroso che peserà soprattutto sulle famiglie medie.

Après America, le Déluge?
Dal suo insediamento, Trump ha costantemente confermato i peggiori timori dei suoi detrattori. Con o senza un forte movimento contro di lui, potrebbe ancora gettare l’America in una spirale di declino economico e geopolitico. Anche se sarà rimosso dal potere, Castañeda osserva che il processo stesso potrebbe essere «fortemente dannoso per gli Usa e per il resto del mondo».

Un’America stabile che partecipa attivamente agli affari mondiali, sostiene, «è indispensabile per la cooperazione internazionale». Castañeda, che non è un fan di Trump, è realista, ritenendo che «un’America distratta o perturbata potrebbe essere ben peggiore» di uno scenario in cui «i prossimi tre anni e mezzo siano quanto più positivi – o per lo meno resistenti al disastro».

Ovviamente, non c’è ampio consenso su come sarebbe un mondo senza la leadership americana. Se siamo davvero «alla fine dell’epoca storica che è iniziata nel 1789», chiede Lévy, «ritorneremo all’Era dell’Illuminismo?». Oppure ancora una volta «passeremo attraverso una tragica radicalizzazione dell’Europa e ad un incalzare di guerre mondiali?». Fischer, dal canto suo, avverte che un’abdicazione della leadership americana non farà che creare «un vuoto di potere, marcato dal caos».

Per Buruma, non bisogna rimpiangere gli imperi decaduti per preoccuparsi del massacro che spesso segue al posto loro. E anche escludendo un replay dei peggiori episodi del ventesimo secolo, i «valori comuni» che hanno a lungo «tenuto insieme l’Occidente» potrebbero iniziare a erodersi senza la leadership americana. «In un mondo dominato dalla Cina», avverte Buruma, «le critiche porteranno rapidamente delle ripercussioni, soprattutto nella sfera economica». Di fatto, «gli studios di Hollywood stanno già censurando il contenuto di film i cui incassi sarebbero nel mercato cinese», e le agenzie giornalistiche in difficoltà potrebbero finire per fare lo stesso.

Dall’elezione di Trump, Xi si è apertamente candidato per la leadership globale. Ha offerto una robusta difesa della globalizzazione al World Economic Forum che si è tenuto in gennaio quest’anno, e ha recentemente tenuto un forum per promuovere la Belt and Road Initiative della Cina, che collegherebbe l’Eurasia attraverso infrastrutture e commercio. Come fa notare Joseph S. Nye dell’Università di Harvard, alcuni osservatori vedono il progetto – che è 12 volte più ampio del Piano Marshall post-1945 – come un «tentativo per colmare il vuoto» creato dalla «decisione di Trump di abbandonare il Trans-Pacific Partnership di Barack Obama».

Ma Brahma Chellaney del Center for Policy Research con sede a New Delhi sostiene che la Cina non si comporti sempre responsabilmente come ci si aspetterebbe da una potenza regionale o globale. Oltre alle sue provocazioni nel Mar Cinese Meridionale, Chellaney fa notare che la Cina ha anche intensificato la propria «aggressione terrestre» verso l’India, con una media di «un’incursione segreta in India ogni 24 ore«. In modo analogo, Benjamin J. Cohen dell’Università di Santa Barbara, osserva che lo scorso mese, la Cina ha «effettivamente rinnegato» i propri obblighi di politica monetaria, riaffermando il controllo del governo sul tasso di cambio del renminbi.

Se l’amministrazione Trump abbia o meno una strategia per proteggere i partner e gli alleati dell’America dall’aggressione cinese, o per rispondere adeguatamente ai giochi sporchi nell’economia globale, non è dato saperlo. E la sua gestione dei conflitti geopolitici in altre zone non ispira fiducia. Nel Medio Oriente, Barak Barfi di New America osserva che Trump sta irragionevolmente «alimentando la frattura» tra il Qatar e le altre potenze arabe del Golfo. Dopo che l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrain e l’Egitto hanno interrotto i legami diplomatici con il Qatar, Trump «ha biasimato il Qatar su Twitter», mentre in passato, gli Usa sono sempre «riusciti a mantenere la pace» tra questi Paesi strategicamente importanti. Barfi si aspetta che il conflitto attuale «persista per mesi, se non per anni, dipanando un Medio Oriente frammentato – e sottovalutando l’inefficacia del tweeter-in-chief dell’America».

La storia non è gentile nei confronti dei leader che portano il caos in un mondo già caotico. Una delle più preveggenti raccomandazioni di Machiavelli ai leader politici è «fuggire l’essere odiato». Questo consiglio sembra essere più ascoltato dalla May che da Trump, che sembra prosperare sull’inimicarsi gli alleati dell’America, sull’alienarsi una crescente fascia dell’elettorato americano, e persino (o forse soprattutto) sul demoralizzare coloro che sono al suo servizio.

Forse il presidente Usa deve la sua posizione alla fortuna, ma solo lui è responsabile per il destino della sua amministrazione.

(Traduzione di Simona Polverino)
Copyright: Project Syndicate, 2017.

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