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L’INCONTRO

Amit Sood, il capo di Arts & Culture di Google: «Digitalizzo l’arte per renderla cool»

Amit Sood
Amit Sood

«Se le vostre opere si trovano già in giro per il web, non è meglio che voi ci mettiate il vostro marchio dicendo alla gente: “Queste sono nostre, ve le stiamo dando”?». È quello che Amit Sood ripete ai musei da quando ha dato vita a Google Arts & Culture, la piattaforma che raccoglie online i capolavori digitalizzati. «Il Rijksmuseum di Amsterdam è il primo museo open source: l’intera collezione in alta definizione è sul loro sito e si può scaricare e stampare sulle t-shirt, senza problemi. E il Met di New York ha varato quest’anno la politica Open Access: le opere di interesse pubblico sono accessibili gratuitamente. È una rivoluzione, impossibile da immaginare solo 5-6 anni fa».

Si può essere favorevoli o contrari a un approccio così radicale, racconta, ma che internet abbia liberato la circolazione delle riproduzioni d’arte è un dato di fatto. Con cui i musei devono fare i conti.

Sood cerca la chiarezza in ogni frase, gli occhi scuri che si illuminano: si è allenato in quella palestra per innovatori del nuovo secolo che sono i Ted Talks. È nato nel Sud dell’India 42 anni fa, a Hyderabad, ma è cresciuto a Mumbai, dove si è laureato. Ha lavorato nella squadra di Android in California prima di trasferirsi a Londra, dove oggi guida la squadra di Arts & Culture.

Noi ci incontriamo a Venezia, sotto la Tesa 92 del secolare Arsenale. «È una città dove da tempo siamo i benvenuti. E dove siamo i benvenuti, investiamo», dice allargando le mani. È qui per presentare il «Grand Tour d’Italia»: il viaggio digitale di Google Arts & Culture – democratico e veloce, a differenza di quello goethiano – attraverso Venezia, Siena, Roma e Palermo. Quadri digitalizzati ad altissima definizione (in miliardi di pixel con l’Art Camera messa a punto proprio da Google), itinerari con Street View e i fuochi d’artificio del Redentore (prossima edizione sabato 15) visti da vicino con la realtà virtuale low cost, quella con lo smartphone inserito negli occhiali Cardboard da 10 euro (ma online ci sono anche le istruzioni per costruirseli da soli).

Prendiamo un caffè, anzi lui confessa di non voler assumere troppa caffeina durante il giorno, così si fa portare una tazza di acqua calda: ha una bustina in tasca, una tisana purificante di ortica, finocchio, radici di dente di leone, aloe e menta. «Cleanse di Pukka: brand inglese, ispirazione indiana», la consiglia.

Se Amit Sood resiste al fascino del caffè italiano, del nostro Paese resta incantato da altro, «incluse le incantevoli estati a Procida e Torre Del Greco che ho passato qualche anno fa». «E, certo, tornerò a Venezia, alla fine di settembre, per una settimana come si deve, non di corsa come ora», confida. Ha imparato molte cose dell’Italia attraverso il suo lavoro di direttore del Google Cultural Institute, la fondazione non-profit creata nel 2011 dal colosso di Mountain View, a cui fa capo Arts & Culture. «Non avevo idea che i limoni di Sorrento avessero un’identità culturale così importante», sorride. L’ha capito dalla vetrina Made in Italy, realizzata sulla piattaforma con Unioncamere e il Ministero delle politiche agricole. E una delle sue mostre digitali preferite in assoluto è «La dolce vita», frutto della collaborazione con l’Istituto Luce: racconta l’apertura del primo supermercato in Italia.

E l’arte? «Naturalmente amo Botticelli e Michelangelo. Ma mi sto innamorando di storie che non sono nella Top Ten di TripAdvisor. La Valle dei templi, per esempio. O i quadri di Canaletto, i cui dettagli oggi possono essere ingranditi così tanto che hanno permesso di studiare l’acqua alta a Venezia nei secoli».

Parlando con lui, si dispiegano le opportunità del digitale, che riesce a riunire in un unico luogo ciò che per il mondo fisico resta lontano. Oltre 1.400 musei di 70 Paesi (un’ottantina in Italia) hanno già “caricato” i propri capolavori su Google Arts & Culture: 6 milioni di oggetti, da salvare poi nella propria collezione come in una qualsiasi playlist. Dagli Uffizi alla Frick Collection, da Palazzo Te al Museo d’Orsay: nel 2011 erano 17. La digitalizzazione del patrimonio e l’approdo sul web è un capitolo ancora aperto per i musei italiani. «Tutti si stanno impegnando. Il problema, se fanno da soli, è che il ritmo dello sviluppo tecnologico è così veloce e il loro processo decisionale così lungo, che una volta scelta una tecnologia, è già vecchia e il budget sprecato. Ma ora ci sono meno soldi e cominciano ad affidarsi ad aziende con le giuste competenze. Gli Uffizi sono stati uno dei nostri primi partner. Abbiamo chiesto: cosa volete che facciamo? Il piacere di lavorare nell’ecosistema culturale italiano è che loro te lo dicono. I musei italiani vogliono parlare e sono sempre aperti a nuove idee». Davvero? «Sì. Bisogna dare loro credito. C’è il peso della storia che protegge queste collezioni: non si può prendere una decisione veloce su cosa fare con un dipinto. Ci vuole tempo. Non sono scarpe: è il nostro patrimonio. I nostri mondi, della tecnologia e della cultura, sono molto diversi. Ma gli opposti si attraggono».

Le collezioni dei musei non sono completamente a portata di clic, per scelta. Spesso sono assaggi, per invogliare ad andarci e Sood assicura che chi ha messo online le proprie opere ha anche visto crescere il numero dei visitatori. «Il digitale è supplementare all’esperienza fisica. Non la sostituisce. Soprattutto oggi, dove così tanto si trova online: è addirittura più importante».

La voce riecheggia sotto l’altissimo soffitto, cerca le giuste pause, a sottolineare i passaggi cruciali.

Sood non rivela, come da policy, cifre sugli investimenti di Google: «Negli ultimi cinque anni sono stati significativi» ammette. «Offriamo visite virtuali nei musei e creiamo video per la realtà virtuale. Digitalizzare le opere d’arte e a questa risoluzione può costare decine di migliaia di dollari: lo stiamo facendo centinaia di volte, forse migliaia. Abbiamo iniziato altri tipi di scanning ma non posso entrare nei dettagli perché non siamo ancora pronti. Tutto gratuitamente. I musei non pagano niente. Uno dei motivi per cui vogliono parlare con noi è perché nel contratto c'è una clausola: Google non può realizzare profitti finanziari diretti». Le opere restano dei partner, che possono cancellarle quando vogliono. Il museo dei musei digitale, l’arte accessibile a tutti, alla fine è uno sforzo collettivo.

Quando Sood racconta come è nata questa missione, ritorna all’India natia: «Sono cresciuto pensando che la cultura fosse qualcosa per i ricchi, le élite. Per gli europei è diverso: è scontato per loro accedervi. Volevo annullare il divario tra percezione e consumo della cultura». Così oggi si può navigare tra i quadri dei Musées royaux des Beaux-Arts di Bruxelles organizzandoli per colore, periodo, tipo di tecnica pittorica. Oppure si può digitare «cats» per trovare opere con i gatti: un tipo di ricerca che utilizza il machine learning. Per Sood è uno strumento di lavoro e di coinvolgimento: «Immagina un archivio di 10 milioni di oggetti. Come puoi trovarci un senso? O immagina “La notte stellata” di Van Gogh, al Moma di New York. Tutti la amano. Non sarebbe interessante creare un percorso che ti porti da lì ai dipinti del Rinascimento o ai tessuti del Pakistan? Ci stiamo lavorando. Lo chiamo: “La tana del coniglio di Alice nel Paese delle meraviglie”». Altri, semplicemente, serendipità: ci si può ancora perdere nelle cose che non si stanno cercando, anche se stavolta le indica l'algoritmo.

Il caffè è finito e la tisana ormai fredda. Ma l’augusto spazio dell’Arsenale ha tempo per un ultimo mantra. Sood lo scandisce con l’ottimismo che ha caratterizzato tutto l’incontro: «Mi piacerebbe convincere i ragazzi ad andare al museo, non perché devono, ma perché vogliono. Se agli studenti indiani mostro il National Museum of Art di Delhi attraverso i Cardboard, nella realtà virtuale, mi diranno: “Oh my God, voglio andarci”». Eureka, avrebbe commentato qualcuno.

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