Habent sua fata libelli, e non solo loro: quando, un anno fa, il gruppo di economisti, sociologi e attuariali raccolti e guidati da Nicola Rossi, riprendendo precedenti suoi studi, iniziarono a formalizzare il progetto che ora porta il nome di “25xtutti”, nessuno di loro poteva sapere quando esso sarebbe stato terminato e quali sarebbero stati i rapporti numerici e programmatici tra le forze politiche. Deve considerarsi una fortunata combinazione che quel momento sia venuto in piena campagna elettorale, quando cioè le parti politiche mettono a punto le piattaforme con cui si presenteranno agli elettori. Il fatto che ora si sappia che la campagna elettorale durerà diversi mesi, dà la profondità di prospettiva in cui collocare progetti di grande respiro.
Propizio il tempo, adeguato il progetto. Prima di tutto perché dietro gli slogan dei titoli c’è un impressionante lavoro di raccolta dei dati, di calcolo delle conseguenze, di verifica delle compatibilità, giuridiche ed economiche, nazionali e comunitarie. Un lavoro in cui tesi e obiettivi possono essere discussi, che può essere accettato, respinto o modulato, ma che in nessun modo può essere accantonato come superficiale o impraticabile. E neppure ignorato: perché nel progetto ci sono temi che sfidano tutte le forze politiche, ciascuna in un punto chiave del suo programma e della sua identità. Può bastare cambiare il titolo con cui lo si chiama.
Lo si può chiamare Flat tax, e allora richiamerà alla mente slogan familiari agli elettori di Forza Italia fin dalla sua prima prova elettorale: un tema poi finito sotto traccia, ma non fuori dalla loro memoria. Dovrebbe renderli più esigenti, ora che è disponibile una solida dimostrazione di fattibilità, che si concreta nella riduzione della pressione fiscale di 4 punti percentuali.
Lo si può chiamare “minimo vitale” e allora dovrebbe interessare il M5S. Già gli altri suoi punti identitari, il referendum sull’euro e la campagna contro le vaccinazioni, hanno dovuto essere o accantonati o fortemente depotenziati. Anche quella del “reddito di cittadinanza”, punta di lancia del suo programma, è rimasta come bandiera di quello che è stato ridimensionato a “sostegno al reddito”. E che pure assorbe risorse di 20 miliardi di euro , che dovrebbero trovare copertura per i ¾ in maggiori imposte: col risultato di aumentare la pressione fiscale dell’1% del Pil.
Lo si può anche chiamare riforma del funzionamento della Pa, e allora dovrebbe destare l’interesse della sinistra: la riforma delle istituzioni è stato il tema centrale di questi anni di governo, intorno a essa si è svolto un dilaniante dibattito interno. Non che il nostro progetto abbia l’ambizione di avventurarsi su una strada su cui per decenni si sono esercitate le migliori intelligenze politiche e amministrative del Paese. Ma perché prendendo in mano e razionalizzando sia il modo con cui lo Stato raccoglie le risorse sia quello in cui le eroga, comporta di necessità il dover ripensare il funzionamento della Pa e rispondere alla domanda di fondo: che cosa lo Stato vuol fare e soprattutto che cosa non fare, quali sono le cose essenziali e quali quelle superflue o addirittura negative.
È inoltre nel centrosinistra che più avvertita è la sensibilità a temi quali il principio costituzionale della progressività dell’imposizione fiscale, della solidarietà tra generazioni e tra fasce di reddito, ma anche una storica attenzione alla sostenibilità economica e alla compatibilità con i vincoli di bilancio. Molti di quelli che hanno lavorato al progetto hanno trascorso nel centrosinistra buona parte della propria vita politica; questi temi non solo erano loro presenti, ma osservarli è stata pre-condizione per procedere.
Non è questa la sede né per rispondere alle obbiezioni di principio, né per discutere sulle varianti, di entità modi e tempi, a cui il progetto è ovviamente aperto. Ma c’è un’obbiezione a cui non si può evitare di rispondere, per la stima e l’affetto che si nutre verso chi l’ha avanzata, e per le corde che ha toccato: perderebbe l’anima, ha detto Romano Prodi, una sinistra che adottasse questa proposta. Capisco che il solo nome di Flat tax rischi di dividere un’area che egli invece cerca di compattare. Ma così si pone la politics davanti alle policies: davanti cioè alla copertura solidaristica del minimo vitale per tutti; alla progressività, che va misurata nel concreto e non nell’astratto delle aliquote nominali; alla riduzione del carico fiscale che è una elle chiavi per la crescita; alle irrazionalità, sprechi e ingiustizie di un sistema cresciuto per successive aggiunte e il cui disegno complessivo è ora diventato illeggibile.
Credo invece che sia venuto il momento di chiedersi, e non solo a sinistra, se incentivare la gente a lavorare di più per guadagnare di più, a investire nel proprio capitale umano per diventare più ricca, sia un bene o un male per la società. Se, a sinistra soprattutto, si debba esser ciechi innanzi alla possibilità di riattivare il più potente motore dell’ascensore sociale: la voglia di migliorare le proprie condizioni.
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