Il fiscal compact è un argomento che appassiona l’Italia con schieramenti tra contrari e favorevoli. Ci sono però anche altre posizioni che, pur comprendendo il dibattito, preferiscono proporre strategie complementari più complete. Una riguarda la necessità di una ulteriore riflessione prima di includere il fiscal compact nei trattati europei, anche perché ne seguirebbe la possibilità di deferire lo Stato che lo viola alle giurisdizioni comunitarie con una mutazione giudiziaria della politica economica molto pericolosa. Un’altra strategia riguarda il varo di una politica economica per l’eurozona che affianchi ad una sana gestione delle finanze pubbliche nazionali un’altrettanto sana strategia di investimenti infrastrutturali (tangibili e intangibili) di alta qualità economica, sociale ed ambientale. Queste strategie possono essere combinate con quella della messa in sicurezza di una parte dei debiti pubblici nazionali attraverso la emissione di eurobond. Il meccanicismo del fiscal compact non basta per fare della Uem e della Ue un polo mondiale di sviluppo innovativo e solidale che vada al di là dei numeri secondo i quali siamo da alcuni punti di vista già “primi”.
Il ruolo dell’Italia
In tutto ciò è bene chiedersi anche quale ruolo europeo potrebbe svolgere l’Italia. Bisogna dare atto che dal semestre di presidenza italiana della Ue (il secondo del 2014) ad oggi i nostri governi hanno messo l’accento sulla crescita contribuendo a sostenere le non facili scelte del presidente Juncker, sia per una maggior flessibilità dei bilanci pubblici, sia per il varo del suo Piano per gli investimenti. L’Italia ora non deve fare interventi su punti isolati ma tenere una strategia. Anche perché il suo debito pubblico rimane preoccupante, specie in previsione dell’aumento nei tassi di interesse. Questa strategia è chiaramente delineata nel documento del Mef «Una strategia europea condivisa» del febbraio 2016. Data l’incisività governativa, tutto fa pensare che si tratti di un documento Padoan-Renzi. La solida coerenza della proposta non facilita una selezione che tuttavia facciamo.
Il nucleo è che la politica di bilancio dei singoli Paesi (che devono proseguire con le riforme strutturali) richiede più simmetria e una componente in capo all’Eurozona per spingere gli investimenti. Ciò significa che la politica monetaria non può da sola supplire alla politica economica.
Qui vi è un disegno di riforma dell’Eurozona per certi aspetti simile al progetto dei cinque presidenti («Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa») ma molto più coraggioso per altri. Vediamo dove e come.
Più simmetrie macro e più investimenti
Il documento afferma nettamente, tra l’altro, che un surplus eccessivo delle partite correnti di qualche Stato ha effetti negativi sul funzionamento dell’Uem tanto quanto i deficit di altri. Gli eccessi di risparmio connessi ai surplus dovrebbero portare a più investimenti pubblici e privati. Se manca un’impostazione più cooperativa a sostegno della domanda si creano infatti squilibri macroeconomici che vanno controllati più efficacemente a livello di Ue e Uem. In tutto ciò ovvio è il riferimento alla Germania che è chiamata a una leadership ineludibile.
Il ragionamento si può applicare anche alle finanze pubbliche. In tal caso tenendo conto che nel quadro attuale, regolato dal fiscal compact, il regime di austerità ha frenato la spesa in conto capitale finanziata a debito in vari Paesi a bassa crescita che tuttavia potevano fare un po’ di più, condizioni politiche permettendo, con una più efficace riallocazione della spesa pubblica.
Ma il solo recupero del livello pre-crisi degli investimenti dell’Uem richiederebbe di più. Un eurobond garantirebbe la possibilità di reperire risorse da destinare allo scopo, in un quadro di sostenibilità della spesa, in quanto garantita da uno schema di assicurazione che vedrebbe nell’architettura Bce-Sebc-Ems i suoi tre perni fondamentali.
Eurobond: necessari ma impossibili?
Il tema delle obbligazioni europee è dibattuto da circa vent’anni, e ha assunto molteplici sfumature e contenuti, sia per la funzione ad esse assegnata sia per quanto riguarda le modalità d’emissione e l’istituzione emittente. Uno dei tratti più interessanti e politicamente più rilevanti è quello che riguarda i profili di solidarietà e sostenibilità a livello dell’Unione. Noi stessi abbiamo proposto su queste colonne varie tipologie quali gli EuroUnionBond e gli EuroSintbond.
Matteo Renzi ne tratta nel suo recente volume. Nel documento del Mef si afferma chiaramente che una quota di condivisione del rischio è una componente fondamentale per una Unione economica e monetaria in quanto la stessa e la mutualizzazione (ovviamente parziale) «rappresentano un potente incentivo per il rispetto delle regole e per la prevenzione di comportamenti opportunistici».
Malgrado l’opposizione tedesca sembri invalicabile a questo proposito, non bisogna demordere cogliendo quelle iniziative limitate come gli « ESBies». Si tratterebbe di cartolarizzazioni di titoli del debito sovrano già detenuti dalla Bce, e da questa ceduti all’Esm e alla Bei. Non ci sarebbe mutualizzazione, ma una riduzione del rischio Paese per gli Stati più vulnerabili.
Al proposito ci saremmo aspettati molto di più sugli Eurobond dal Libro bianco della Commissione sul futuro dell’Europa (pubblicato poco prima delle celebrazioni per il 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma). Sarebbe stata, inoltre, un’ottima occasione per rafforzare lo scenario tre, “Chi vuole di più fa di più”, che tuttavia rimane molto importante.
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