Commenti

Le molte facce del populismo che vince anche se perde

  • Abbonati
  • Accedi
L'Editoriale|europa e italia

Le molte facce del populismo che vince anche se perde

C’è un’opinione condivisa secondo la quale la minaccia populista sta scomparendo nelle democrazie europee, tra cui quella italiana. Nulla di più sbagliato. I movimenti o i partiti populisti continuano ad essere attori permanenti della politica europea. Sotto forma di un nazionalismo populista sono al governo in importanti paesi dell’Europa dell’Est (come la Polonia e l’Ungheria), sotto forma di un populismo nazionalista sono il principale partito di opposizione in importanti paesi dell’Europa dell’Ovest (come la Francia e l’Italia). E anche là dove non sono competitivi (come nei Paesi Bassi), il loro linguaggio ha finito per impregnare il discorso pubblico. Con la conseguenza che il populismo rischia di vincere anche quando perde. Per contrastare il populismo, occorre capirne le caratteristiche. Ed è ciò che farò per mostrare come esso venga male-contrastato in Italia, in particolare dal principale leader anti-populista Matteo Renzi. Vediamo meglio.

In primo luogo, il populismo è uno stato d’animo, una predisposizione, prima ancora che una idea politica È un sentimento carsico secondo il quale il popolo è migliore (più virtuoso, più onesto, più autentico) delle sue élite. Per il populismo, il popolo è sempre un’entità singolare, un tutt’uno che non conosce distinzioni al proprio interno. Il popolo esiste in quanto tale, come realtà virtuale se non digitale. Nel passato, il popolo è stato fatto coincidere con una razza, un’etnia o una classe. Oggi, viene fatto coincidere con una nazione. Quest’idea è all’origine di tutti i mali. Essa ha sostenuto e continua a sostenere tutti i movimenti autoritari e totalitari europei degli ultimi due secoli. Siccome il popolo è un tutt’uno, non c’è bisogno della libertà, che si impone invece là dove ci sono differenze. Per i populisti, quel popolo unitario è oggi minacciato dalle immigrazioni, provenienti in particolare dai Paesi di religione islamica, oltre che da élite cosmopolitiche, che non l’hanno protetto. Marine Le Pen, Beppe Grillo, Geert Wilders, Victor Orban, Beata Szydlo e Robert Fico, tra gli altri, hanno differenze tra di loro, eppure condividono la stessa visione unitaria e totalistica del popolo.

Il loro compito è «fare ciò che il popolo vuole» (come affermò Juan Peron in un famoso discorso).

In secondo luogo, e di conseguenza, il populismo è intimamente anti-pluralista. Le distinzioni tra interessi e valori non sono rilevanti. Ciò che è rilevante è l’unità morale del popolo. Ecco perché il linguaggio populista è allo stesso tempo illiberale e moralista. I populisti sono contrari alla democrazia rappresentativa in quanto sistema che alimenta la corruzione dei rappresentanti. Nelle parole di Luigi Di Maio o di Matteo Salvini o di Kristian Thulesen Dahl o di Nigel Farage, gli avversari sono nemici da disprezzare, élite corrotte e traditrici. Per definizione, chi è fuori del potere è pulito, chi è dentro il potere è sporco. Il compito dei populisti è quello di portare il popolo ad esercitare direttamente il suo potere. Talora attraverso rappresentanti-portavoce (che dovrebbero essere obbligati al vincolo di mandato), talaltra attraverso strumenti tecnologici (come la piattaforma Rousseau, nel caso dei nostri 5 Stelle). In realtà, la visione anti-pluralista ha generato ovunque il centralismo autoritario delle decisioni (basti vedere il controllo feudale dei 5 Stelle da parte del suo fondatore), mentre la visione moralista ha alimentato una cultura del complotto e dell’inimicizia (basti vedere l’accusa di ladrocinio a chiunque abbia un ruolo pubblico). Ma soprattutto l’anti-pluralismo moralista ha reso impermeabili molti elettori dei partiti populisti dalle evidenze empiriche circa i risultati dell’azione di quei partiti. Insomma, non saranno i fallimenti della Giunta Raggi al Comune di Roma che allontaneranno gli elettori dai 5 Stelle, proprio perché quest’ultimo è nato per promuovere la loro identità, non già per risolvere i loro problemi.

In terzo luogo, la predisposizione populista è stata formidabilmente aiutata dagli errori commessi dai partiti storici nella gestione delle crisi multiple che hanno attraversato l’Europa negli ultimi dieci anni. Il processo di integrazione, sotto i colpi delle crisi, ha finito per dare vita ad una governance sempre più intergovernativa dell’Unione europea (Ue) e dell’Eurozona. Più le crisi si sono accentuate, più la governance intergovernativa si è bloccata, per via delle sfiducie reciproche e degli interessi divergenti tra i governi nazionali. Di qui, lo sviluppo di un approccio decisionale che si è affidato alle regole e non alla politica per affrontare le sfide. È evidente che un sistema di questo tipo ha finito per enfatizzare il ruolo dei tecnici nella gestione di quelle regole. Svuotando al contempo la distinzione tra sinistra e destra a livello nazionale. È stato così servito al populismo, su un piatto d’argento, la testa di un nuovo nemico: la tecnocrazia europea e i suoi agenti nazionali. Quasi ovunque, in Europa, i movimenti populisti hanno assunto caratteristiche anti-europeiste a partire da una mobilitazione anti-tecnocratica. La mobilitazione contro l’Europa dei tecnocrati ha fatto convergere i nazionalismi populisti dell’Est e i populismi nazionalisti dell’Ovest, in nome di un popolo che deve ritornare ad essere un’entità nazionalmente unitaria e moralmente integra.

Se queste sono le caratteristiche del populismo, come contrastarlo? E qui arrivo all’Italia. Occorre innanzitutto risolvere le cause del malessere sociale che soffiano sulle vele della mobilitazione populista, da un’insopportabile corruzione diffusa della vita pubblica ad un’inaccettabile diseguaglianza sociale e ad un’ingiustificabile paralisi del progetto di integrazione. Ma il populismo va contrastato anche sul piano culturale, in quanto rappresenta una vera e propria minaccia esistenziale per la democrazia rappresentativa (una verità che sembra sfuggire a quegli studiosi che si sono affrettati a salire sulla barca grillina o leghista). I leader e i partiti anti-populisti debbono cambiare l’agenda e il linguaggio del nostro Paese, se vogliono svuotare il richiamo populista. Se si parla di vitalizi, Beppe Grillo o Matteo Salvini avranno sempre la prima parola. Ma se si parla come loro parlano, allora essi avranno anche la seconda parola. Ed arrivo a Matteo Renzi. Se quest’ultimo è stato il premier del governo più riformista dell’ultimo decennio, se oggi è il leader riconosciuto del maggior partito di governo, che senso ha che rilanci la “rottamazione” come sua strategia politica? Si può rottamare quando si deve conquistare il potere, non quando lo si è esercitato e lo si potrà esercitare. Se il populismo consiste nell’integralismo, nell’anti-pluralismo, nel complottismo e nel moralismo, allora che senso ha che un leader anti-populista come Matteo Renzi faccia proprie molte delle caratteristiche linguistiche del populismo? I leader anti-populisti non possono vivere nell’ossessione dei complotti, o peggio ancora in uno scenario mentale connotato da una distinzione inequivoca tra il bene e il male. Quei leader sono necessariamente pluralisti e anti-moralisti, oltre che costruttivamente europeisti. Per questo motivo, hanno un atteggiamento empirico e non ideologico, cercano di utilizzare tutte le persone di talento che possono aiutare a risolvere quei problemi. Creano “teams of rivals” (come fecero Abraham Lincoln e Barack Obama), se ciò può servire a risolvere i grandi problemi dell’Italia. Ecco perché la sfida populista non va sottovalutata. Non basta una vittoria elettorale per venirne
a capo.

© Riproduzione riservata