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La mancanza di ideali che impedisce la rivoluzione dei Neet

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La mancanza di ideali che impedisce la rivoluzione dei Neet

In Italia ci sono 2,2 milioni i giovani Neet (senza studio né lavoro), ma i giovani che svolgono attività precarie raggiungono livelli ancora più significativi. Infatti, non si può chiamare lavoro un’attività come quella di Paolo che ha ricevuto 200 euro dopo aver lavorato un mese come aiuto-cuoco in un ristorante, non è lavoro fare il bagnino per 4 euro all’ora come succede a Christian, né lavare ortaggi per 2 euro all’ora come accade a Matteo. Non c’è rappresentanza politica, sindacale e associativa per questi ragazzi che a forza di vivere flessibilmente hanno reso liquide le loro relazioni, i loro pensieri, le loro aspettative e speranze. Come racconta Luca: «Io sono sceso di livello, mi sono accontentato. Non posso farmi una casa tutta mia? Mi porto la tipa a casa, Non posso pagarmi le vacanze? Vado con i genitori della mia ragazza. Non posso uscire la sera? Vado nel bar degli amici dove non devo consumare». In mezzo a tutto questo restano ragionevoli, ponderati, misurati, e il fatto che l’ingiustizia subita non si trasforma in rancore e ribellione violenta è da considerare un fattore di successo, ma fino a quando durerà?
Fabrizio Floris

Il rapporto annuale sull’occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa pubblicato pochi giorni fa dalla Commissione europea conferma le preoccupazioni del lettore (e non solo le sue) sui Neet, anche se la situazione, in tutta la Ue, appare in miglioramento.
Il che aggrava il quadro italiano (che comunque mostra anch’esso qualche segnale positivo), soprattutto per le disparità territoriali che vi si manifestano: i dati dell’Istat, infatti, mettono in luce come la percentuale di giovani tra 15 e i 29 anni che non lavorano e non studiano varia dai minimi all’11,1% della provincia di Bolzano al massimo del 39,5% in Sicilia; nel Nord siamo al 17,4%; nel Sud e nelle Isole a circa il 35 per cento.
Gli scarti territoriali e i segni di miglioramento (in Italia e in Europa) dimostrano che non sono necessariamente i tempi maledetti (una volta si sarebbe detto “il destino cinico e baro”) a far crescere fatalmente il fenomeno, ma un mix di fattori strutturali e di politiche sul quale si può e si deve intervenire, soprattutto alla luce della nuova rivoluzione industriale che di nuovo sconvolgerà, anzi sta sconvolgendo, il mercato del lavoro.
In Italia, il dramma si chiama Mezzogiorno; perciò, nonostante i segni di miglioramento di cui abbiamo letto ieri a proposito dal check-up Confindustria-Srm, temi come la ripresa industriale, la disseminazione d’impresa, l’efficienza infrastrutturale, la formazione del capitale umano e la tutela dei diritti rimangono imprescindibili per fare in modo che il gap dei Neet si riduca.
Queste dovrebbero essere le priorità; la politica invece, si esercita, con fervore trasversale, negli sforzi di depotenziare e annacquare la riforma Fornero delle pensioni, come se il nostro dramma fosse la condizione dei pensionati (e pensionandi), non quella dei giovani, in primis meridionali. Modificare le norme sull’età pensionabile e peggiorare in prospettiva le condizioni già difficili della finanza pubblica significherebbe infatti una cosa sola: ridurre drasticamente le chance, spesso già così problematiche, per i giovani.
Qui torna utile l’ultima osservazione del lettore: come mai non scoppia la rivoluzione dei Neet, soprattutto quando essi si avvicinano a essere la metà della popolazione? Non vorrei che anch’essi fossero vittima dell’illusione che le pensioni di nonni e genitori siano la loro migliore polizza di sopravvivenza, da integrare quando serve con lavoretti in nero e sottopagati. Per scoppiare, le rivoluzioni hanno bisogno di ideali, oggi merce piuttosto rara: soprattutto quando il clima circostante induce alla rassegnazione e al fatalismo, al quale, fortunatamente, tanti giovani cercano di reagire investendo (spesso con successo) su se stessi.

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