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Alle ragazze dico: «Sfilate, se vi pare. Ma studiate»

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L'Analisi|INTERVISTA A INèS DE LA FRESSANGE

Alle ragazze dico: «Sfilate, se vi pare. Ma studiate»

Sarà perché è alta un metro e ottanta e ha un corpo asciutto e armonioso, che sembra rispondere a canoni di bellezza dell’antica Grecia. Lo stesso dicasi del viso: irregolare quanto basta, con occhi marroni e un naso che qualcuno – certo con una punta di invidia – potrebbe definire importante. Sarà perché ha origini nobili, che non ha mai tentato di nascondere, ma neppure mai sottolineato. Anzi: poco più che ventenne scelse di usare solo una piccola parte del suo nome, che per intero è Inès Marie Laetitia Églantine Isabelle de Seignard de la Fressange. Sarà per tutte queste ragioni – e forse altre ancora – che Inès de la Fressange incute un po’ di soggezione e allo stesso tempo attrae, quasi ammalia. Irraggiungibile suo malgrado, potremmo dire.

Dal 1980 al 1989 è stata la modella più famosa di Francia e tra le più note nel mondo, grazie alla collaborazione con Chanel e al sodalizio con Karl Lagerfeld, allora come oggi direttore creativo della maison alla quale i francesi sono forse più legati. Nel 1990 alla vita di modella ha aggiunto quella famigliare, sposando Luigi D’Urso, prematuramente scomparso nel 2006 per un infarto e dal quale ha avuto due figlie, Nine e Violette. Come la madre, sono bellissime (quasi) senza sapere di esserlo. O meglio: nessuno, donna o uomo che sia, può lucidamente rinnegare l’immagine riflessa da uno specchio, quando la bellezza è tanto evidente. Ma c’è modo e modo di darle un ruolo nella propria vita e nella propria percezione e costruzione di sé. Come dimostra in particolare il percorso della figlia maggiore, Nine, che oggi ha 23 anni, da pochi mesi volto ufficiale del profumo Eau Sensuelle di Bottega Veneta: se ha lezione all’università, shooting e passerelle passano in secondo piano, ha raccontato Nine in numerose interviste, infarcite con mirabile leggerezza di citazioni musicali, teatrali e letterarie.

«Sono molto orgogliosa delle mie figlie – racconta Inès – e non avrei negato loro alcuna opportunità né mi sarei opposta ad alcun desiderio. Come quello di lavorare nella moda. È un mondo che a me ha dato tantissimo: oggi che sono una “old lady” vedo forse qualche rischio in più di quando, anch’io poco più che ventenne, iniziai a frequentarlo. Ma ogni ambiente o settore ha i suoi difetti: Nine e Violette mi hanno sempre dato l’impressione di avere personalità e strumenti di comprensione di sé stesse e della realtà. Questo, credo, mi ha portata a non provare paura all’idea che diventassero modelle».

Ripercorrere la carriera di Inès de la Fressange non è facilissimo: proprio come al suo “amico ritrovato” Lagerfeld, non le piace guardare al passato né indulgere sui rimpianti. Cresciuta fuori Parigi insieme ai tre fratelli nella tenuta della nonna Suzanne Lazard (erede della dinastia fondatrice dell’omonima banca), fu influenzata, nello stile, più dall’illustre progenitrice che da padre e madre, imbevuti di cultura pseudo hippy, come tanti giovani, anche se nobili, della loro generazione. Non esistono fotografie degli armadi di Suzanne Lazard, ma Inès ha lasciato più volte intendere quanto, specie ai suoi occhi di bambina, sembrassero fiabeschi. Un gusto e uno stile, quello di Madame Suzanne, frutto di grandi sostanze economiche, certo, ma lontano dagli eccessi di nobildonne francesi di epoca pre-rivoluzionaria (come non pensare a Maria Antonietta?). All’epoca non esisteva il prêt-à-porter: per donne agiate c’era “solo” l’haute couture, pezzi unici fatti su misura da stilisti come Patou, Balmain e Nina Ricci.

Trasferitasi a Parigi, Inès si diplomò a l’École du Louvre (istituto specializzato in storia dell’arte e museologia), con l’intenzione di proseguire gli studi e diventare psichiatra infantile o magari avvocato: «Fare la modella non era un mio obiettivo e tanto meno poteva essere un mestiere», ha raccontato in più di un’occasione. Per non parlare del fatto che a metà degli anni 70 il suo essere alta, con il corpo dall’aria forte e sana che l’adolescenza in campagna le aveva dato, non soddisfava i canoni del mondo della moda d’allora. Tanto meno il suo essere nobile, nell’epoca in cui nemmeno la borghesia se la passava tanto bene. Ma fu proprio a 17 anni, presentandosi quasi per caso in un’agenzia di modelle, che iniziò la sua carriera: l’idea era trovare un lavoretto che soddisfasse il suo desiderio di indipendenza economica.

Se il rimpianto per non essere diventata psichiatra o avvocato forse c’è, Inès, umana, troppo umana, sembra compensarlo con l’orgoglio materno per i successi di Nine. «È entrata all’École Normale, un mito per ogni francese: dei 2mila candidati alla selezione finale ne sono stati scelti 30 e mia figlia è una di questi. A volte la sua vivacità e profondità intellettuale mi intimidiscono, ma la cosa straordinaria è che Nine riesce a essere anche leggera e spensierata e forse è questo mix che l’ha resa una modella e testimonial così richiesta». Come è accaduto a sua madre, potremmo commentare. Inès invece non lo direbbe mai, forse non lo pensa neppure. All’occhio estraneo sembra aver avuto tutte le fortune che una donna può desiderare (compreso il grande amore, per quanto prematuramente scomparso): eppure di lei colpiscono l’affabilità, la schiettezza, la capacità di fare sentire a proprio agio gli interlocutori. Stupisce ancora di più la sua umiltà, che a tratti sconfina nell’insicurezza, incredibile a dirsi. «Per qualche anno – racconta – ho tenuto una rubrica mensile sul magazine femminile D di Repubblica e mi sono divertita moltissimo. Ma allo stesso tempo temevo sempre di non trovare l’idea giusta, la riflessione adeguata, lo spunto di cronaca utile e magari anche arguto dal quale partire. Poi ci riuscivo sempre. O quasi. Eppure ancora adesso quando un amico o una persona che ho appena incontrato mi ricorda quell’esperienza e dice di aver trovato interessanti i miei articoli, sono colpita e sinceramente grata, perché la mia insicurezza latente viene un po’ scalfita».

Inès de la Fressange con lo stilista e amico Karl Lagerfeld nel 1987 (AFP PHOTO PIERRE GUILLAUD)

Come tutte le persone intelligenti, Inès è consapevole delle sue capacità, ma pensa di dover continuare a informarsi, studiare, cercare di capire il mondo e i suoi cambiamenti. «Mi piacciono molto i romanzi, specie se raccontano di mondi diversi o lontani dal mio, ma in questo periodo leggo molti saggi, sulla religione, la geopolitica, le discriminazioni». Accanto a lei dal 2009 c’è Denis Olivennes, intellettuale e scrittore, nonché giornalista multimediale ante litteram: fino al 2010 direttore del Nouvel Observateur, oggi è presidente di Lagardère Active e in passato ha guidato la catena Fnac. Le affinità elettive con Inès riguardano anche l’impegno per cause sociali e umanitarie, ma tutto quello Inès e Denis fanno, da soli o in coppia, non viene mai sbandierato. Entrambi esperti comunicatori, per ciò che sta loro davvero a cuore, danno precedenza alla sostanza.

Inès ha vissuto da protagonista gli anni più scintillanti della moda e a un certo punto ha creato un marchio che porta il suo nome e che disegna in prima persona. Da oltre 15 anni però il suo impegno professionale principale è per Roger Vivier, storico brand francese rilanciato da Diego Della Valle, anche grazie al ruolo di Inès, che dal 2001 lavora a stretto contatto e armonia con Bruno Frisoni, direttore creativo della maison di calzature, borse e accessori di lusso. Una liaison lunga, per gli standard dei nostri tempi, in cui gli stilisti cambiano più velocemente degli allenatori di calcio. «Il mio ufficio sopra il negozio Roger Vivier di Parigi, in rue du Faubourg Saint Honoré, mi somiglia molto, credo. Alle pareti e sui tavoli ci sono fotografie di ogni tipo, ritagli di giornale, ricordi di viaggi, oggetti preziosi e opere d’arte, piccole e grandi, contemporanee e antiche. Non penso certo di rubare il lavoro a Bruno, ma siamo amici e non posso fare a meno di farmi venire idee per Roger Vivier e sottoporgliele. Sono convinta che si possa essere creativi e lasciarsi guidare dal cuore più che dalla testa, dalle sensazioni più che dalle ricerche di marketing anche quando si ha un ruolo di comunicazione e promozione, come è essenzialmente il mio di ambasciatrice di Roger Vivier».

Forse in questo “mix and match” di ispirazioni c’entra il Dna. «Ci siamo trasferiti da mia nonna quando avevo 4 anni. Certo, era una donna dell’Ottocento: quando viaggiava in treno, per dire, aveva un vagone solo per lei. Amava le cose belle e possedeva abiti e gioielli meravigliosi, ma era anche una donna spirituale, interessata alla politica: uno dei suoi figli morì partigiano durante la Resistenza. Non solo: mia nonna era una donna molto divertente».

Inès de la Fressange durante l’inaugurazione del suo negozio nel 2015 (Olycom)

La vena puramente creativa di Inès ha trovato sfogo nel marchio di abiti che porta il suo nome (che vende nel suo negozio-bazar di Parigi, al 24 di rue de Grenelle, sulla rive gauche), nonché nella collaborazione con Uniqlo, il brand giapponese con il quale sente una particolare affinità, benchè – o forse proprio per questo – sia tra i leader nel fast fashion e non si possa certo etichettare come lusso. «Siamo alla decima collezione, un record per Uniqlo. Mi è piaciuto da subito lavorare con loro: a partire da Tadashi Yanai, fondatore e grande capo di Fast Retailing, il colosso che controlla Uniqlo, passando per tutte le persone dell’ufficio stile, del marketing, della produzione e comunicazione. Dei giapponesi ammiro da sempre la capacità di ascoltare, oltre che di concentrarsi su un obiettivo senza risparmiarsi, anche quando non c’è un vantaggio diretto o personale».

Nel 2017 i ricavi di Fast Retailing dovrebbero raggiungere i 15 miliardi di euro, ma non è la grandezza dell’azienda ad aver attratto Inès: «Ancora oggi sono poche le donne e gli uomini che possono permettersi abiti e accessori di Armani, Chanel, Saint Laurent o... le scarpe e le borse Roger Vivier. Uniqlo propone una moda accessibile mantenendo un livello di qualità, ricerca stilistica e sui materiali che credo sia unica nell’universo del fast fashion. Con le mie collezioni sento di poter dare un contributo a questo progetto e ne sono felice. Perché è giusto che tutti possano divertirsi con la moda, che forse non può cambiare il mondo, ma sicuramente può aiutare a instaurare un rapporto più sereno con il nostro corpo, parte essenziale di ciò che siamo. E può aiutarci a esprimere la nostra personalità e quindi a farci sentire un po’ più sicure. Almeno un po’».

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