«Era la primavera del 1999. Ero appena tornato da un anno e mezzo a New York. Avevo deciso di fondare una mia azienda lasciando la consulenza. Bain mi aveva pagato una parte della retta dell’Mba alla Columbia University. In tutto, 120 milioni di lire. Mi diedero una settimana per restituirli. Non sapevo che fare. Andai a cena con un amico, di nome Fabio. Glielo raccontai. Lui mi ascoltò e poi disse: “Non c’è problema. Te li do io 120 milioni. Tu, con la tua azienda, farai bene e me li restituirai”. Tirò fuori il blocchetto degli assegni, ne compilò uno e me lo consegnò. Rimasi senza fiato».
In questo racconto, c’è molto della parabola – insieme italiana e antiitaliana – del fondatore di Yoox, Federico Marchetti, classe 1969, uno dei pochi “giovani” industriali del nostro Paese che non ha ereditato una impresa di grandi dimensioni ma che – intuendo le potenzialità della vendita online dei capi di abbigliamento dei grandi marchi - l’ha fondata rendendola, in quasi vent’anni di lavoro, un organismo internazionale e ben finanziarizzato, consustanziale alle nuove tecnologie e con una ossatura industriale fatta di logistica.
Nelle parole di Marchetti compaiono New York – la New York che iniziava a perdere il sonno e il senno non solo per la finanza ma anche per internet -, la cultura manageriale delle università americane e quella roba strana – fra il capitale sociale di Robert Putnam della Tradizione civica delle regioni italiane e il senso di prossimità agli altri raccontato da Cesare Zavattini – che è molto italiana, di un amico in difficoltà che apre il suo cuore a un altro amico il quale, a sua volta, non ci pensa su e mette mano al portafoglio.
Al Ristorante Il Porto, in Piazzale Cantore a Genova, Marchetti si presenta con una giacca grigia e una camicia di jeans. Quando ordiniamo, gli va bene consumare, insieme, un piatto di verdure grigliate, che si riveleranno buonissime, quasi croccanti e lievemente salate: «Facciamo sharing. Condividiamo. Il Paese che preferisco, per l’estetica e la cultura, è il Giappone. L’ho visitato una quarantina di volte. Ho fondato Yoox nel 2000. Nel 2003, siamo entrati negli Stati Uniti. Nel 2004, eravamo in Giappone. Dove è considerato normale prendere in tanti il cibo da un unico piatto», spiega.
Quindi, scegliamo la portata principale: io ordino calamari fritti, lui invece preferisce una sogliola. Da subito, mi è chiara la particolare attitudine combinatoria di un uomo che unisce cose molto italiane a cose poco italiane. «Sono di Ravenna. Mi sento prima di tutto romagnolo. Ogni anno, in agosto torno per una settimana a Marina di Ravenna, dove rivedo gli amici».
Ravenna è la città dei Ferruzzi, il cui capostipite Serafino contribuì a definire per mezzo secolo le quotazioni della Borsa Merci di Chicago - fino alla morte in un incidente aereo, il 10 dicembre 1979 - , e da cui Raul Gardini provò, con la fusione fra Enimont e Montedison, l’assalto al cielo del capitalismo e della partitocrazia della Prima Repubblica, togliendosi la vita con uno sparo il 23 luglio del 1993.
La Romagna è anche la terra che ha inventato, nel Mediterraneo, il turismo organizzato e popolare. Questa attitudine all’imprenditorialità è presente nell’aria, avrebbero detto Alfred Marshall e Giacomo Becattini. Per Marchetti lo spirito imprenditoriale non è, infatti, una eredità di famiglia: «Mio papà Giancarlo, che è mancato a febbraio, lavorava come magazziniere alla Fiat e mia mamma Lidia, invece, faceva la telefonista alla Sip», racconta.
Molto italiana – nel doppio senso del lasciar andare che le cose accadano e dell’appartenenza al gruppo di amici dell’adolescenza, fra Pupi Avati e Gabriele Salvatores – la situazione che lo portò alla scelta di non iscriversi a medicina: «Lo studio necessario a preparare l’esame di ammissione avrebbe impedito le lunghe vacanze dell’anno della maturità, organizzate con gli amici a bordo di un furgone arancione».
Non molto italiano, dopo la laurea in Economia aziendale alla Bocconi nel 1994, l’approdo alla Lehman Brothers: pura finanza, 90 ore a settimana come analista, l’osservazione dal basso di uno degli snodi del potere del nostro Paese – finanziario, ma anche politico-economico, in epoca di privatizzazioni - retto da Vittorio Pignatti-Morano, Patrizia Micucci e Ruggero Magnoni. «Lavoravo tantissimo – ricorda Marchetti – e usavo molto l’informatica. Il che, in quel momento, non era scontato».
L’altro elemento di vera divergenza rispetto al modello – quasi all’antropologia – dell’imprenditore italiano è costituito dal rapporto con i diritti di proprietà. In Italia, l’imprenditore ha l’ossessione per il controllo dell’azienda. A parole – nella pensosa retorica da convegno – tutti si dicono pronti a fare entrare nel capitale nuovi soci per il bene della società. Nei fatti, il meccanismo di identificazione fra impresa e imprenditore si rivela totale. L’istinto naturale è quello.
Nel caso di Marchetti, non è andata così. Nel meccanismo di costruzione di Yoox, che ha avuto un passaggio fondamentale nella fusione nel 2015 con The Net-A-Porter Group e che ha visto nel 2016 un fatturato netto di 1,87 miliardi di euro (+17,7% rispetto all’anno precedente) e un Ebitda di 156 milioni di euro (+17%), il tema della quota di appannaggio del fondatore non è rilevante. Il che, per il nostro classico imprenditore, appare davvero qualcosa di diverso. Oggi Marchetti controlla il 7,5% fully diluted di YNAP. «Ho un attaccamento viscerale, ma non un senso del possesso egoistico, per la mia azienda», afferma. E aggiunge: «Da subito, non disponendo di alcun capitale di partenza, di alcuna eredità, di alcun lascito, ho dovuto ricorrere al venture capital. Con in mano il business plan di Yoox, feci il classico giro delle sette chiese. E devo dire che, all’inizio, incontrai dei venture capitalist molto all’italiana, la cui domanda di rito era: “sì, ma chi altro investe nell’azienda?”. Per fortuna trovai Elserino Piol, che con la Olivetti fin dai primi anni Ottanta aveva introdotto il venture capital nel nostro Paese, per poi diventare egli stesso un imprenditore in questo settore dopo l’uscita dal gruppo di Ivrea. Avevo cercato il numero di telefono sulle Pagine Gialle. Nel marzo del 2000, mi diede 3 miliardi di lire per il 33%».
Nel marzo del 2015, inizia il processo di fusione di Yoox con The-Net-A-Porter-Group, che era di proprietà di Richemont. Il 5 ottobre di quell’anno, viene quotato il nuovo gruppo. Yoox è nata vendendo capi di fine stagione, Net-A-Porter ha sempre operato nel segmento full price di lusso. Dunque, la fusione ha cambiato la pelle all’azienda. Pochi mesi dopo, nel settembre del 2015, Natalie Massenet, fondatrice di The-Net-A-Porter-Group, ha lasciato il gruppo, di cui sarebbe dovuta diventare presidente, e nel febbraio del 2017 si è unita a Farfetch, un concorrente più piccolo. Marchetti non mostra preoccupazioni: «Natalie è una donna di grandi relazioni. Ma lei aveva già ceduto la sua creatura a Richemont. A livello di stabilità del capitale e di strategia definita fra azionisti, nulla è cambiato. E, soprattutto, niente è mutato nelle ragioni industriali che hanno reso opportuna la fusione fra le due realtà. Le aree geografiche complementari, in particolare, ci consentono di coprire tutti i mercati internazionali».
Marchetti, il cui iniziale modello di business era fondato sulla vendita online di prodotti di grandi stilisti della stagione precedente, non appare nemmeno turbato dalla tendenza imposta al capitalismo internazionale dalla crisi: la reinternalizzazione – in molti comparti - di fasi del processo produttivo e commerciale. In parole povere, in questo specifico settore: il rischio che i grandi marchi decidano di fare da soli, aprendo ciascuno un proprio canale internet. «Fatturiamo il 90% con i nostri negozi online e il 10% con i siti che creiamo e gestiamo per conto di altri. Ad esempio Moncler, Valentino e Armani», spiega.
Oggi Yoox Net-A-Porter Group è una impresa logistica – in contraddizione con il punto di debolezza storico del capitalismo italiano – e appunto tecnologica. Nei prossimi cinque anni, gli investimenti in ricerca e sviluppo saranno pari a mezzo miliardo di euro. Il cuore tecnologico dell’azienda è l’algoritmo in grado di calcolare dieci milioni di prezzi da attribuire ai singoli capi di abbigliamento in vendita.
C’è, poi, nelle intenzioni dell’impresa, la responsabilità sociale esercitata quale metodo di gestione: come ricorda l’ultimo bilancio di sostenibilità, in un gruppo di 4.128 dipendenti con una età media di 33 anni, il 96% ha un contratto a tempo indeterminato, il 61% è formato da donne, le retribuzioni delle quali – nelle posizioni di leadership – sono più alte del 14% rispetto agli omologhi maschi.
In una Italia in cui gli imprenditori amano riempirsi la bocca della necessità di coinvolgere i lavoratori, Marchetti ha distribuito azioni a 250 suoi collaboratori, per un valore superiore ai 200 milioni di euro. Distribuire ricchezza. Perché essa generi altra ricchezza. Molto american-romagnolo.
A questo proposito, quando siamo al caffè, viene spontaneo chiedere a Federico dell’amico Fabio, quello dell’assegno da 120 milioni di lire con cui potè ripagare il master. «Altroché se glieli ho ridati. E pure di più. Quando ho quotato l’azienda, nel 2009, gli ho regalato un po’ di azioni. Credo che si sia comprato una barca...», sorride Marchetti con il divertimento compiaciuto del romagnolo che sa che la prosperità va sempre goduta e, qualche volta, condivisa.
© Riproduzione riservata