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IL REPORTAGE

Caduta e rinascita di Detroit: così la «Ghost Town» è ripartita

Detroit Institute of Arts  (Reuters)
Detroit Institute of Arts (Reuters)

«What do I have to do to be saved?». «Che cosa devo fare per essere salvata?». La gigantesca scritta color pece, sull’edificio grigio a fianco della Michigan Central Station, riproduce bene il senso di scoramento e di ineluttabilità che, per tempo immemore, ha segnato il cuore e l’anima di Detroit.

Estate del 1967, cinquant’anni fa: i quartieri dei neri esplodono di rabbia, la città va a fuoco, l’esercito americano riporta l’ordine, la divisione dai bianchi diventa una ferita profonda. Anni Settanta e Ottanta: la città si svuota e si trasforma in una delle più violente degli Stati Uniti, la borghesia la abbandona per andare a vivere nei sobborghi residenziali. Anni Novanta: la globalizzazione corrode le basi di Detroit Motor City. Anni Duemila: l’industria dell’auto è messa fuori mercato dalla concorrenza asiatica e dai costi previdenziali e assicurativi della manodopera, fino al fallimento nel 2009 di Chrysler e di General Motors, con i soldi pubblici stanziati dal presidente Barack Obama - 80 miliardi di dollari - che consentono la conservazione del loro profilo industriale. Oggi: qualunque cosa Detroit dovesse fare per essere salvata, ci è riuscita.

IN VETTA
L'occupazione Stem (Science, Technology, Engineering e Mathematics) dal 2010 al 2015. In %. (Fonte: Us Bureau of Labor Statistics; Emsi)

Edward Welburn, a capo del design di tutta la General Motors dal 2003 al 2016 e l’afroamericano con la più alta posizione gerarchica nell’industria dell’auto americana, usa sei parole: «A Detroit qualcosa è davvero cambiato».

Le nuvole basse oggi sono di un bianco candido. Il cielo di questo Midwest industriale è blu cobalto. La luce è quasi accecante. E Detroit, con la sua particolare natura di realtà partorita non senza dolore dal ventre meccanico della manifattura del Novecento, è viva e scalciante. Nel luglio del 2013, l’amministrazione cittadina, gravata da un debito di 18 miliardi di dollari, ha dichiarato fallimento. Si è trattato della maggiore bancarotta di una municipalità statunitense. Uno stato di insolvenza da cui la città è uscita in un anno, tramite un piano di cessioni di immobili, rinegoziazione dei debiti e tagli degli stipendi e delle pensioni dei dipendenti comunali.

LA DISOCCUPAZIONE
A confronto la disoccupazione negli Usa e nella Detroit Region da luglio 2007 a luglio 2016. In %. (Fonte: Us Bureau of Labor Statistics; Emsi)

Oggi Detroit, come molte grandi città americane, continua ad avere mille problemi sociali, ma pulsa anche di investimenti immobiliari, di nuove attività imprenditoriali (non solo nelle tecnologie, ma pure nella manifattura tradizionale) e nei servizi, con i ristoranti e i bar di Detroit Downtown pieni a ogni ora del giorno. Il cerino che ha acceso il fuoco è il real estate, con pezzi interi della città ricostruiti dall’imprenditore di Quicken Loans Dan Gilbert (un new comer di Cleveland, dove possiede i Cavaliers, la squadra di basket di Lebron James) e dagli Ilitch, una ruling family proprietaria di Little Caesars Pizza. «Vengo in ufficio con una camminata di venti minuti - racconta Sandy K. Baruah, presidente e amministratore delegato della Detroit Regional Chamber - sono qui dal 2010 e, fino a pochi anni fa, la mia passeggiata avveniva in strade semideserte. Non c’era nessuno». Ora non è più così. La ripresa è anche demografica. Oggi ci sono 720mila abitanti. Negli anni Cinquanta erano 2 milioni. Ma, da quattro anni, il deflusso si è fermato. Detroit è tornata a ripopolarsi. E a lavorare. Secondo l’ufficio del Governatore del Michigan, nel 2009 il tasso di disoccupazione a Detroit era pari al 28,3 per cento. Adesso è all’8,3 per cento.

Perché Detroit ha scommesso su Trump, ma rischia di rimanere delusa

Soltanto quest’anno, sono stati effettuati investimenti per 3,1 miliardi di dollari e sono stati creati 11.800 posti di lavoro. Nell’intera Detroit Region, operano 300mila aziende, 1.300 delle quali sono straniere. La rinascita è un connubio di servizi e di manifattura. La quale, in questa parte di America, rimane fondamentale. Secondo la Detroit Regional Chamber, nel 2015 l’export è stato pari a 44 miliardi di dollari; l’integrazione di Detroit con l’area del Nafta - l’accordo di libero scambio con il Messico e Canada, tanto osteggiato dal presidente Donald Trump - è assai forte: 17,3 miliardi verso il primo (soltanto El Paso fa meglio) e 15,1 miliardi verso il secondo (prima area metropolitana americana).

Sandy K. Baruah, prima di arrivare a Detroit, ha lavorato a Washington. Nell’amministrazione di George W. Bush era a capo della Small Business Administration, dove gestiva un budget di 18 miliardi di dollari. «L’elemento interessante - spiega - è la natura complessa e non monotematica di questa nuova fase dello sviluppo di Detroit e della Detroit Area. Ci sono molti differenti settori. Che attirano talenti e intelletti interessanti». Nell’intera Detroit Area, ci sono 300mila lavoratori Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica): il 18,4% dei lavoratori, il doppio della media nazionale (9,4%) e una quota superiore a Boston (10,7%) e a Seattle (15,6%). Nell’Advanced Manufacturing, le imprese di Detroit generano ricavi per 60 miliardi di dollari.

Solidità tecno-manifatturiera

La solidità è tecno-manifatturiera. Il brivido della rinascita è nei servizi. Da ghost-town a fun-town. Ogni anno vengono qui 10 milioni di visitatori. In media il 70% delle stanze è occupato, contro il 54% del 2010.

Martina Schlagwein è un personaggio chiave della tecnostruttura a cui si riferisce l’amministrazione del Governatore del Michigan, Rick Snyder. È responsabile delle attività europee della Michigan Economic Development Corporation. Ha influenza sugli abbondanti incentivi che lo Stato riserva alle imprese europee che decidono di aprire qui una sede o, meglio, un sito produttivo. «Il cuore di Detroit - racconta Martina - è tornato a battere. La differenza rispetto a una volta è che oggi c’è maggiore integrazione fra questa grande città e il resto del Michigan. Lo sviluppo non è più unidirezionale. L’auto non è fallita ed è tornata a crescere. Ma ci sono molti nuovi investimenti. Dall’entertainment alle tecnologie, fino all’artigianato».

Nell’arco di pochi minuti di macchina, tenendo come epicentro la Wayne State University, ti rendi conto di questa versatilità: dall’incubatore di Techtown (fondato da General Motors, Wayne State e Ford Foundation) al Biosciences Center creato in un edificio un tempo della Cadillac, dalle biciclette e dagli orologi di Shinola agli studi di incisione della Third Man Records, l’etichetta fondata dal cantante degli White Stripes, Jack White.

Oggi questo cambiamento particolare è inserito nella mutazione generale segnata dal fenomeno Trump. Martina Schlagwein è una tecnica al servizio della linea politica di Snyder, una delle figure principali del Partito Repubblicano. Quel partito repubblicano che, da destra, non è riuscito a fornire una valida alternativa a Donald Trump. «Detroit città ha votato per Hillary Clinton, il resto del Michigan per Trump - ricorda -. Certo Trump è un elemento di radicale novità nel panorama americano. Anche se credo che per lo sviluppo economico e industriale del Paese, e di Detroit in particolare, l’ambiente sia più importante della politica, l’andamento naturale del contesto generale prevalga sulle linee che un singolo potere, per quanto fondamentale, possa dare».

Lo scenario, qui, è di profondo cambiamento. Ogni anno vengono demolite 4mila case abbandonate. L’amministrazione cittadina ha sostituito 65mila luci pubbliche. Fino al 2014, il 40% dei lampioni non funzionava. Le rapine sono calate del 33 per cento. I furti sono scesi del 20 per cento. «Le luci della strada sono importanti», dice Molly Mitchell, proprietaria di Rose’s Fine Food, otto tavoli e un bancone dove si cucina - secondo il New York Times - una delle migliori colazioni degli Stati Uniti. Jefferson Avenue, uno dei quartieri da sempre più duri di Detroit, non distante dallo stabilimento della Fca, Jefferson North Assembly Plant.

Molly - capelli rossi increspati, lentiggini e nasino a punta - sembra una ragazza di Dublino. La musica di Curtis Mayfield suona. La figlia della cameriera nera balla su un trespolo del bancone. All’ingresso il carello “arms not allowed here”, “armi non consentite qui”. Vicino al bagno il poster “No! In the name of umanity we refuse to accept a fascist America”. Su un tavolino torte alla crema e alle mele fatte in casa. Molly mi serve uova in camicia e bacon croccante e delicato: «Sono stata a Chicago e a San Francisco. Poi ho deciso di tornare a casa. I lampioni che funzionano. La maggiore pulizia delle strade. La polizia più presente. Più business. Sono felice di avere ricominciato la mia vita qui, nella mia Detroit».

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