Non amo i discorsi sui massimi sistemi. Preferisco attenermi alle cose concrete, abolendo la cortina fumogena delle sigle e dei tecnicismi.
Nei lunghi anni d’insegnamento universitario (sono un italianista in pensione) ho assistito a parecchi approcci innovativi. In tutti questi approcci mancava la chiarezza del progetto. Vado terra terra. Se dispongo di uno stabile e voglio restaurarlo, devo prima decidere la funzione dello stabile: voglio farne un negozio, voglio adibirlo ad appartamento familiare, voglio farne un bar, un ristorante? Solo dopo, mi rivolgerò a un architetto. Ebbene: cosa significa riformare l’Università? Prima di tutto devo rendermi conto che l’Università appartiene a un più ampio sistema scolastico. Non posso toccare l’Università, se prima non preparo un progetto che mi permetta un transito di qualità degli studenti dai licei alle facoltà universitarie. E poi una selezione, anch’essa di qualità, dalle Università alle Scuole d’eccellenza. Detto questo, la riforma deve riguardare anche gli sbocchi professionali. Costruire una Università efficiente signica garantire l’adeguatezza di un insegnamento finalizzato alla preparazione e all’accesso al lavoro.
Faccio un esempio. I dottorati servono alla preparazione specialistica. E tuttavia non servono a trovare un lavoro. L’Università dà una specializzazione, investendo somme notevoli. I giovani che hanno preso il dottorato sono poi costretti a spendere questa loro specializzazione nelle Università straniere. Nelle facoltà umanistiche (di queste mi intendo), la frequenza del dottorato è incompatibile con la frequenza dei corsi di abilitazione all’insegnamento. Allo stato attuale (so che se ne discute da anni, e qualche progetto è in aria) chi si è addottorato, se vuole insegnare nelle scuole medie, deve tornare indietro, cominciare un percorso nuovo, e guardare sempre più da lontano (dopo aver “perduto” almeno tre anni) il possibile approdo all’occupazione. Il dottorato peraltro non assicura l’accesso ai posti di ricercatore. E i posti di ricercatore sono per lo più precari, e sono (arbitrariamente) usati per supplire alle carenze dell’organico dei docenti: capita assai spesso, quasi sempre, che i ricercatori vengano distolti dalla ricerca per insegnare, fare esami, e sobbarcarsi a un fortissimo carico di disbrigo burocratico. Il ricercatore è il precario più precario e la vittima più abusata del sistema universitario (e dovrebbe essere invece un elemento di valore per il futuro di una Università che non vuole chiudersi sul proprio invecchiamento). Viene il sospetto che gli interventi di riforma non si siano mai occupati a sufficienza del problema della dignità del lavoro, della qualificazione e della certezza degli sbocchi professionali.
I vari tagli ai finanziamenti, hanno reso sempre più inefficienti le biblioteche, gli archivi, i laboratori. Si aggiunga che da qualche anno a questa parte la preoccupazione per la ricerca è stata sostituita da una finzione burocratica che permette di assecondare i più incredibili criteri di valutazione (una volta, per esempio, era il prestigio dei collaboratori a dare valore alle riviste e alle case editrici scientifiche; adesso il valore lo dà la rivista o la casa editrice che obbedisce ai criteri burocratici e non scientifici dei valutatori: mi viene da pensare che, con questi criteri di valutazione, studiosi come Gianfranco Contini o Padre Pozzi, nel mio ambito disciplinare, non vincerebbero mai un concorso a cattedra: uno scriveva anche su riviste periferiche non valutabili e l’altro, essendo un frate, si permetteva di pubblicare sulla rivista dei frati cappuccini). Per preparare l’edizione critica di un classico (Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, ecc.) ci vogliono anni di ricerca assicurata dalla stabilità del cosiddetto “posto”.
Per le promozioni adesso si richiede invece una improvvisata, abborracciata e affollata titolografia accademica (che poco ha a che fare con la scienza), da produrre frettolosamente ed essere sottoposta (senza necessità di lettura) a giudizi basati su criteri burocratici e per niente scientifici. Possono così capitare incidenti clamorosi. Le cronache più recenti hanno gridato allo scandalo di professori universitari che sono stati dichiarati (burocraticamente) eccellenti e tali da meritare la chiamata a una cattedra, per scoprire subito dopo che la titolografia accademica era interamente copiata, e quindi falsa. Ma i valutatori, i commissari del concorso, l’avevano mai letta? Come hanno fatto a non accorgersi che un libro su Pirandello, copiato alla lettera, diventasse, faccio esempi a caso, un libro su Quasimodo e anche su Pascoli?
C’è un’altra tendenza curiosa. Gli orari delle lezioni accademiche diventano sempre più invasivi. Si ha la sensazione che le lezioni dei professori debbano sostituire lo studio degli studenti. Mi chiedo: se uno studente ha un carico di lezioni che gli riempie la giornata dalle 9 del mattino alle 7 di sera, senza soluzione di continuità, come farà a studiare? (Fra l’altro, a quell’ora, le biblioteche sono state già chiuse). I libri non servono più? Quanto si legge, nelle Università? Nelle facoltà umanistiche si leggono ancora i classici? Una volta i professori si chiamavano “lettori”, perché insieme agli studenti leggevano i classici.
Un ministro mi disse una volta che le riforme universitarie in Italia guardavano all’alto modello delle Università americane. Mi permisi di dire che sì, avevano preso il modello americano, ma l’avevano tradotto in gergo italiota. Avevano dimenticato di osservare che il sistema preso a modello non dà riconoscimento legale al titolo di studio.
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