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Per i giovani un futuro anche da ambasciatori del made in Italy

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Per i giovani un futuro anche da ambasciatori del made in Italy

Gentile Galimberti,

anch’io sono d’accordo con quanto scrive Fabrizio Floris nella lettera pubblicata sul Sole 24 Ore del 26 luglio e aggiungo (come già fatto non so quante centinaia di volte) che, se istruissimo e preparassimo i nostri giovani a divenire promotori e ambasciatori del made in Italy, utilizzando il commercio e la distribuzione commerciale come veicoli di penetrazione sui mercati, avremmo praterie a disposizione, dato che nel resto del mondo ci sono spazi infiniti in cui proporre e vendere il made in Italy. In questo ambito non sono capaci di assumere iniziative né il pubblico e neppure il privato. Dato che siamo invasi da catene distributive straniere mentre, di nostre, a insegna italiana, neppure l’ombra oltre le Alpi, il Mediterraneo e gli oceani. E allargando consistentemente la presenza italiana sui mercati esteri, di riflesso aumenterebbero la domanda di lavoro in Italia e i consumi interni.

Luigi A. Ciannilli

Caro Ciannilli,

è vero che delle grandi catene distributive nel mondo, nessuna, a valenza multinazionale, è italiana. Ma questa assenza non vuol necessariamente dire che perdiamo un’occasione di creare posti di lavoro: se la Esselunga aprisse cento supermercati all’estero, ne guadagnerebbe l’occupazione locale. Mentre, se Carrefour o Aldi o Lidl aprissero altri cento supermercati in Italia ne beneficebbe l’occupazione italiana. È però vero che le catene all’estero di proprietà italiana potrebbero spingere i nostri prodotti. Ma i nostri prodotti si devono affermare per le loro intrinseche qualità, non perché una eventuale catena distributiva italiana dovesse mettere negli scaffali il parmigiano italiano invece di qualche (orribile) “parmesan” prodotto in loco.

Quello che lei auspica – giovani italiani ambasciatori del made in Italy – è successo, senza volerlo, tanti anni fa, quando gli italiani emigrarono nei cinque continenti, e in ogni luogo costruirono comunità che divennero, con il loro successo e con la domanda di prodotti italiani, ambasciatori sui generis. Cosa dovrebbero fare oggi i nostri giovani? Magari andare all’estero, imparare le lingue, e poi tornare con nuove professionalità e avendo comunicato - piccoli ambasciatori - il gusto per le cose italiane. In ogni caso, non seguire l’incolto consiglio di Flavio Briatore che nel 2014, professore per una sera all’Università Bocconi, disse agli studenti di non perdere tempo con le startup: tutta fuffa, disse, ne riesce una su 100; e dava un altro consiglio: «Non voglio portare sfiga, ma per voi non ci sono opportunità. Fate un lavoro normale, magari apritevi una pizzeria. Così se fallisce almeno vi mangiate una pizza. Se fallisce la startup non vi rimane neppure quello».

In California i “fallimenti” vengono portati con orgoglio da chi tenta e cade, così come nei tempi andati un tenente, nella mensa ufficiali di un’armata prussiana, esibiva una cicatrice da sciabolata. Se un giovane italiano decidesse di aprire una startup, in Italia o all’estero, e poi fallisse, spero gli venga voglia di ricominciare.

fgalimberti@yahoo.com

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