La tecnologia si sta rivelando il principale campo di battaglia per Cina e Usa. Pechino è stata esplicita in merito alle sue aspirazioni di dominio tecnologico e sullo sforzo del governo cinese per diventare leader globale in campi d’avanguardia come auto elettriche, intelligenza artificiale, robotica e altre cruciali tecnologie del futuro.
La Cina ha accelerato lo sviluppo di questi settori iniettando enormi risorse pubbliche. Con il piano “Made in China 2025”, punta alle industrie globali a rapida crescita che possono creare milioni di posti di lavoro ben retribuiti per una generazione di giovani cinesi dotati di una formazione sempre più sofisticata.
Il trasferimento di tecnologia diviene perciò una questione nevralgica, da un lato, per gli obiettivi di sviluppo di Pechino e, dall’altro, per la difesa e la sopravvivenza dell’industria occidentale. Ma, nel momento in cui l’amministrazione Trump si muove per affrontare la Cina sulle violazioni della proprietà intellettuale e il trasferimento di tecnologia - e anche in Europa si cerca di individuare misure per tutelare l’industria innovativa - Washington scoprirà di avere poche munizioni. Perché le regole del commercio mondiale potrebbero favorire la Cina.
Le attuali frizioni in materia di scambi risalgono all’amministrazione Clinton. Quando la Cina entrò nella Wto nel 2001, i negoziatori americani concessero a Pechino una certa libertà d’azione, una posizione che più tardi fu supportata anche dall’amministrazione di George W. Bush. Come Paese in via di sviluppo, alla Cina fu permesso di limitare l’accesso al suo mercato per le compagnie americane che non fossero impegnate in joint venture con partner locali. Pechino promise di togliere tali norme man mano che la sua economia fosse divenuta matura. Ma non lo ha fatto.
Così, adesso a Washington e Bruxelles si cerca di correre ai ripari e di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.
La capacità della Cina, specialmente nelle nuove tecnologie, è stata a lungo indietro rispetto a quella delle economie avanzate in Europa e America. Alcuni decenni di sviluppo industriale per raggiungerle hanno pagato il loro dividendo, specialmente nelle tecnologie d’avanguardia. Ma la partnership tecnologica con Pechino è assai problematica e rischiosa.
Il punto è che, quando si ha a che fare con uno Stato autocratico e che non è un’economia di mercato, come la Cina, si dovrebbe avere la visione strategica di considerare anche il potenziale distruttivo per l’Occidente, il suo sistema di valori e del diritto che esso può comportare. Si prenda il caso dell’intelligenza artificiale che dominerà il futuro. Pechino ha predisposto un piano per divenire il leader mondiale della AI entro il 2030, mirando a superare i suoi competitor e a creare un’industria nazionale che valga almeno 150 miliardi di dollari. Secondo alcune fonti, la Cina ha già più dei 2/5 degli scienziati esperti in AI del mondo; il numero dei brevetti in questo campo è cresciuto del 200% negli ultimi anni, anche se gli Usa sono ancora primi.
Se la Cina riesce nell’intento, il futuro della intelligenza artificiale mondiale sarà concentrato in gran parte nei laboratori del Dragone. E Pechino avrà in mano le chiavi per essere una grande potenza economica. Con i suoi 1,4 miliardi di abitanti e 730 milioni di persone connesse al web, la Cina genera dati più di qualunque altro Paese. Un enorme volume di informazioni che costituiscono il più importante ingrediente della intelligenza artificiale perché consentono alle macchine di imparare. Senza dire che Pechino è già leader in campi strategici per la sicurezza nazionale come le tecnologie per la trasmissione quantistica (ossia, di messaggi cifrati inviolabili), e nella fabbricazione di droni che sono stati usati pure dall’esercito Usa.
La questione è che l’intelligenza artificiale cinese rispecchierà inevitabilmente l’influenza dello Stato. E Pechino è uno Stato autocratico. Si parla di piani per la creazione di un “credito sociale” che attribuirebbe valutazioni ai cittadini in base al loro comportamento. Lo scenario distopico di algoritmi che aiuteranno le autorità a controllare il comportamento degli individui è più prossimo di quanto non si pensi. Ed è realistico immaginare che questi algoritmi vengano esportati come servizi a tutti gli Stati autoritari del mondo.
I giganti del web occidentali, da Facebook a Google, non sono certo incolpevoli nella manipolazione delle informazioni. Ma sono impegnati in un dibattito aperto sulle implicazioni etiche della AI e sono limitati, almeno in parte, dalle istituzioni democratiche. Se uno Stato autocratico, come quello cinese, avrà il controllo sull’intelligenza artificiale, esso ne sarà anche il maggior beneficiario.
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