Il robot ci ruba il lavoro? La risposta è controversa. In una lunga inchiesta il Wsj sottolinea come, ad esempio nel mondo Usa del retail, da un lato la digitalizzazione avrebbe comportato la perdita tra il 2007 e il 2017 di 140mila impieghi; ma, dall’altro, l’e-commerce avrebbe implicato la creazione di oltre 400mila posti di lavoro. Insomma, non solo l’impatto sarebbe tutt’altro che terrificante. Ma, addirittura, la rivoluzione digitale costituirebbe una vera e propria «manna». A ben vedere la considerazione sembra eccessiva. La disintermediazione dell’e-commerce, infatti, non impatta solamente il mondo retail. Bensì estende i suoi effetti anche su altri settori della filiera produttiva. Insomma, il problema è più complesso. La stessa Ocse, non certo un’organizzazione anti-capitalistica, ha stimato che circa il 9% delle attività lavorative può essere oggetto d’automazione. Un’eventualità che, inevitabilmente, darà luogo a disoccupazione.
Al che il signor Rossi ribatte: l’innovazione, però, consentirà nuove tipologie di lavoro. Vero! L’obiezione, tuttavia, sottovaluta la velocità della rivoluzione tecnologica. Senza, poi, considerare il fatto che, nel caso dell’Intelligenza artificiale, non viene sostituita la forza fisica dell’uomo ma, al contrario, la sua attività intellettuale. Una dinamica che, a differenza del passato, renderà difficile la creazione di un ampio indotto. E non solo. La sempre maggiore sofisticazione degli strumenti di lavoro richiederà delle competenze non facili da acquisire. «Il tema - conferma Emanuele Borgonovo, direttore del Bemacs della Bocconi - esiste. È l’altra faccia della medaglia dell’innovazione. La tecnologia, da una parte, consente nuove opportunità e crea posti. Dall’altra però elimina forza lavoro. La sfida, nel medio periodo, è quella della formazione: una strada per riuscire a rendere questa rivoluzione inclusiva e allargare l’occupazione. Più sul breve, inevitabilmente, bisogna pensare a forme reddituali di sostegno».
Insomma: meccanismi per fronteggiare l’emergenza. E, poi, la spinta sull’educazione. Per «essere scienziati fin da 6 anni», come dice Roberto Cingolani direttore scientifico dell’Iit. Peccato però che il 26,1% di italiani 25-34enni non vada oltre la terza media.
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