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Sul fine vita confronto scientifico autorevole e informazione laica

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Le lettere

Sul fine vita confronto scientifico autorevole e informazione laica

Il dibattito sul fine vita procede sempre a stento, dentro i palazzi della politica, ma anche fuori. Perciò ha fatto bene il radicale Marco Cappato, pur rischiando in prima persona una condanna, a chiedere di andare subito e pubblicamente a processo per aver accompagnato dj Fabo in Svizzera lo scorso febbraio. Per di più, al necessario dibattito si aggiunge la recente drammatica decisione dell’ingegnere di Albavilla di ricorrere al suicidio assistito, che ci pone una domanda già sollevata nel 2011 dall’ultimo viaggio di Lucio Magri, anch’egli affetto da grave depressione: chi soffre di una malattia psichica è davvero “libero” nella sua scelta di morire? All’epoca interpellai un luminare in questo campo, lo psichiatra Massimo Fagioli, che rispose: «Chi è malato di depressione può e deve essere curato e il bravo medico deve anzi impedire la sua tendenza al suicidio. Un diritto civile come l’eutanasia va pure conquistato, ma dovrebbe valere soltanto per chi sia affetto da una malattia davvero incurabile, che generi sofferenze insostenibili». Si dovrebbe ripartire da queste parole chiare, anche per evitare una confusione che non giova al già impervio cammino della legge sul testamento biologico.
Paolo Izzo
Roma

Condivido il senso della lettera: il tema del suicidio assistito è di quelli che meriterebbero un dibattito serio e approfondito; quando se ne parla, invece, il clima è spesso da tifoserie che non sentono ragioni. Ho molto rispetto, perciò, per Marco Cappato e per la battaglia che sta conducendo, anche se rimango perplesso sull’estensione del cosiddetto diritto al suicidio. In linea di principio, per un liberale è difficile non riconoscere a ciascuno il diritto a decidere della propria fine; ma quello che mi lascia perplesso nel riconoscimento di un diritto a morire è la fatale statalizzazione della decisione che comunque affideremmo a una sorveglianza e a una validazione di natura pubblica se non giudiziale. Qui nascono i dubbi; è vero che le recenti normative, o proposte, al riguardo prevedono paletti e controlli: la California, per esempio, ha stabilito l’anno scorso che la decisione di voler morire deve essere presentata in forma scritta dal paziente (che abbia un’aspettativa di vita inferiore a sei mesi), asseverata da due testimoni e approvata da due medici; poi l’interessato deve richiedere oralmente il farmaco letale per due volte, a distanza di quindici giorni, sottoporsi a un colloquio coi medici e, alla fine, ingerire personalmente la pozione. Tante cautele, evidentemente, intendono evitare proprio quel rischio di banalizzazione del suicidio che potrebbe poi degenerare in un’autentica pressione esercitata o esercitabile da parenti, ospedali, strutture assistenziali su pazienti in condizioni di particolare debolezza psicologica, quelle appunto che preoccupano il lettore.
Perciò condivido la posizione espressa dal filosofo Corrado Ocone in una recente intervista a “Formiche”: «Oggi - forse senza rendercene bene conto - abbiamo delegato così tanto allo Stato da chiedergli addirittura di aiutarci a morire. È un paradosso enorme per un liberale. Il liberalismo è nato con lo Stato moderno al quale, man mano, abbiamo attribuito sempre più compiti in un processo storico che l’ha portato a essere una sorta di balia iperprotettiva. Al punto da arrivare a chiedere che riconosca il diritto al suicidio... Il suicidio è sempre esistito, ma è una scelta individuale, che si può apprezzare o non apprezzare e che può essere più o meno motivata. Il paradosso è che si rimproveri allo Stato di non garantircelo, di non darcelo per legge. Da liberale si tratta - a mio avviso - di un’autentica perversione di quelli che sono i compiti dello Stato».
Non dovrebbe essere impossibile trovare degli interstizi che consentano di garantire la libertà del singolo (quando effettivamente esistente ed espressa) e i limiti di garanzia all’onnipotenza dello Stato: ma servirebbero sedi di discussione al di sopra della mischia e affidate a personalità di riconosciuta autorevolezza scientifica e morale, oltre che un’informazione laica (nel senso di non dogmatica, in qualunque direzione) e aperta al confronto. Tutte condizioni che non vedo, col rischio, di nuovo, di trasformare un dibattito su una questione così ardua (ma non è l’unica) in un ring.

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