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Il tasso di cambio influenza sempre meno la competitività

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Il tasso di cambio influenza sempre meno la competitività

Gentile Dottor Galimberti,
In questi giorni i media riportano le preoccupazioni sul rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro e la cosa mi lascia perplesso. Infatti se guardiamo la bilancia commerciale della Germania, della Spagna e della stessa Italia vediamo che tutte e tre le nazioni non hanno mai esportato tanto come in questi ultimi tempi (siamo diventati un po’ parassiti!), scolasticamente parlando è ovvio che la divisa che esporta di più si irrobustisce nei confronti dell’altra, allora perché sorprendersi? Sulla debolezza del dollaro aleggia anche la sensazione che la politica monetaria della Fed possa essere meno restrittiva di quello che si pensava qualche tempo fa, e lo stesso Trump ha sempre sostenuto che avrebbe favorito le aziende americane, e come farlo se non con un dollaro debole? Le ultime affermazioni di Draghi sono per un ulteriore periodo di politica economica accomodante, ma nelle orecchie di molti ronzano le dichiarazioni dello scorso giugno in Portogallo. Visto che prima dicono una cosa e poi ne fanno un’altra, ecco i mercati sono un tantino frastornati, ma non “stupidi”, poi le curve della domanda e dell’offerta serviranno pure a qualcosa, ogni tanto!!!
Grazie per l’attenzione.

Marco Nagni

Caro Nagni,
è vero, l’Eurozona nel suo complesso ha un netto avanzo commerciale e corrente col resto del mondo, e quindi, secondo la saggezza convenzionale, è normale che la sua moneta si rafforzi. Il fatto, però, è che l’euro si è indebolito o rafforzato nel passato indipendentemente dal fatto che i conti con l’estero dell’area fossero in surplus o in deficit. La “saggezza convenzionale” non è più convenzionale, e da molto tempo. Quella “saggezza” sarebbe saggia se la domanda e l’offerta di valute – da cui, per definizione, dipende il prezzo della valuta, cioè il cambio – fossero dominate dalle transazioni correnti, operazioni per compravendite di beni e servizi, per trasferimenti pubblici e privati e per remunerazioni ai fattori di produzione, lavoro e capitale. Ma tutte queste transazioni correnti sono solo una piccola parte – si stima il 5 % o giù di lì – del totale delle transazioni valutarie. L’altro 95% si ritrova nei movimenti di capitale a breve o a lungo.
E dietro a questi movimenti di capitale ci sono le considerazioni più disparate, dagli investimenti di portafoglio agli investimenti diretti, dalle sistemazioni di debiti e crediti ai vagabondaggi della “hot money” e al livello dei tassi di interesse... E dietro a investimenti, sistemazioni, vagabondaggi e tassi ci sono i fattori ultimi, i “primum movens”: l’Eurozona è un’area in cui vale la pena mettere i soldi? È un’area in crescita o un’area che zoppica? Le ragioni della recente forza dell’euro sono tutte nelle risposte positive alle domande di cui sopra. «Sopra ’l golfo che riceve da Euro maggior briga...», scriveva il Poeta. E, come ha detto il presidente Juncker, sulle vele dell’euro soffia un vento migliore. Questa percezione dei Paesi dell’euro come un’area in crescita sta dietro alla ripresa della moneta unica. Ma non potrebbe proprio questo scomodo apprezzamento essere un bastone nelle ruote della ripresa? No, perché la causalità va dalla forza dell’economia alla forza della moneta, e in ogni caso il ruolo del cambio è sempre meno importante nel decidere la competitività di un Paese o di un’area, data la globalizzazione delle catene di offerta e la crescente importanza dei fattori di competitività diversi dal prezzo.
fgalimberti@yahoo.com

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