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Le guerre si evitano con l’etica, ma anche con il benessere diffuso

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Le guerre si evitano con l’etica, ma anche con il benessere diffuso

Gentile dottor Carrubba,
Non bastava l’estroverso Kim, oltretutto lo vogliono far passare come un bambino cresciuto troppo, dimenticando che ha studiato in Svizzera e ha due lauree, una in fisica e una presa all’accademia militare (si dirà che a volte lo studio fa male) ma anche in questa parte del mondo non si scherza, stanno per iniziare le manovre militari tra gli alleati della Russia e Bielorussia che determina un inizio di insonnia agli alti papaveri occidentali, ma non finisce qui, abbiamo la Turchia che gioca su più tavoli con la Nato e con la Russia come al tempo del sultano quando le forze interessate erano la Prussia e la Gran Bretagna e sappiamo come è finita. In conclusione invece di cercare la pace e il benessere degli abitanti d questa bistrattata terra, abbiamo governanti pronti a scatenare l’inferno e altri che sono interessati a giocare a un gigantesco risiko. Ma la pace è così difficile?

Marco Nagni
Falcorara Marittima

Il lettore cita Paesi che non sono esattamente delle democrazie liberali: non è un caso. È molto difficile, infatti, che regimi democratici si confrontino tra di loro in conflitti armati: non necessariamente perché i loro governanti siano più buoni ma, semplicemente, perché l’opinione pubblica riesce a farsi sentire, il governo può essere mandato a casa e le sedi di dibattito e discussione sono diffuse. Non basta: c’è un altro potente antidoto alla guerra, ed è il commercio internazionale. I populisti che, a partire dalla Casa Bianca, boicottano e minacciano l’apertura dei mercati internazionali stanno, più o meno consapevolmente, giocando col fuoco: la chiusura agli scambi attizzerebbe le frizioni, col rischio di farle degenerare. Un mondo di dogane impenetrabili non sarebbe affatto più pacifico: Benjamin Franklin, uno dei padri della democrazia oggi retta dall’aspirante protezionista Donald Trump, osservava che «nessuna nazione è mai stata rovinata dal commercio».
La pace, dunque, resta un obiettivo raggiungibile, se si entra nell’ordine di idee di garantire condizioni che consentano a tutti di svilupparsi e di sentirsi rispettati come partner e come interlocutori, non come avversari: l’epoca mercantilista che vedeva nel commercio un gioco a somma zero, nel quale i vantaggi di una parte corrispondono alle perdite dell’altra, è superata da un pezzo (anche se molti fanno finta di non capirlo).
Dire questo non significa aderire a una visione ingenua della globalizzazione. Questa non è certo indolore, come minaccia di non esserlo il progresso tecnologico con l’avvento dei robot; la rilegittimazione del mondo aperto passa dunque dalla consapevolezza che i problemi ci sono, le crisi mordono, i popoli fremono. Per non cadere nella scorciatoia suicida del populismo, occorre affrontare quei problemi, dimostrando che una società aperta può essere un affare per tutti, perché capace di affrontare e risolvere le preoccupazioni e le difficoltà di chi resta indietro.
La guerra si evita, quindi, con una forte tensione etica, certo, non meno che con politiche che rafforzino il benessere diffuso. Con un’avvertenza: che non basta non fare la guerra per non trovarcisi in mezzo, proprio perché la democrazia liberale non è affatto un modello universale. Perciò, rifiutare la guerra non può significare abbassare la guardia contro gli autocrati che, anche con la violenza, vogliono condizionare, se non abbattere, quel modello democratico nel quale per essi non ci sarebbe posto.

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