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Per chi non investe nel capitale umano il declino è assicurato

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Le lettere

Per chi non investe nel capitale umano il declino è assicurato

Qualche giorno fa il Tar del Lazio ha bocciato il numero chiuso che l’Università statale di Milano aveva introdotto per le facoltà umanistiche. Questa battaglia vinta dagli studenti mette in evidenza un sostanziale corto circuito, un conflitto tra diritto allo studio e qualità della didattica. Tutto nasce dall’introduzione, nel 2013, dei così detti «requisiti minimi», requisiti che un corso di laurea deve avere per poter essere “accreditato” dal ministero, per poter cioè essere approvato. Tra i requisiti minimi per le lauree triennali viene stabilito un rapporto di almeno 9 docenti ogni 50 studenti se si tratta di lauree sanitarie, 75 per le lauree tecnico-scientifiche e 100 per le lauree umanistiche-sociali. Se gli studenti sono al di sopra della soglia sono necessari proporzionalmente più docenti. I docenti “validi” possono essere solo quelli di ruolo e, cosa molto importante, ogni docente può essere conteggiato in un solo corso di laurea anche se insegna in due (o più) corsi di laurea. Se queste (e altre) condizioni non vengono rispettate i corsi vengono chiusi. Tutto ciò secondo il principio per cui in classi troppo numerose non può essere garantita la qualità della didattica. Condivisibile, ma il risultato di questa scelta è che il numero di corsi di laurea e il numero di studenti che vi possono accedere è limitato dalla disponibilità di docenti. Ed è la ragione per la quale l’Università di Milano (e molte altre) hanno dovuto imporre il numero chiuso a quasi tutte le lauree, soprattutto triennali, dovendo escludere attraverso i test di ingresso migliaia di ragazzi a cui di fatto viene negato il diritto allo studio. La soluzione sarebbe semplice. Aumentare il numero di docenti. Peccato che, a partire dalla famigerata Legge Gelmini (legge del 30 dicembre 2010, n. 240) è cominciato un deliberato programma di tagli ai fondi di finanziamento ordinario (Ffo) delle università che ha portato a una riduzione, in 7 anni, di oltre il 30% dei professori universitari e, complessivamente, al taglio dell’Ffo di più di 3 miliardi di euro.

L’Italia è tra i Paesi europei con il minor numero di laureati e non è difficile capire che se rimane anche tra gli ultimi nella classifica europea per il finanziamento alle università e alla ricerca questo Paese è destinato a un inesorabile declino. Non possiamo e non dobbiamo competere con i Paesi emergenti sul basso costo della manodopera. Saremo sempre perdenti ed è un gioco al ribasso, al massacro delle fasce più deboli. Dobbiamo puntare sul “valore aggiunto” della conoscenza e dell’innovazione. Dobbiamo, cioè, fare l’esatto opposto di quello che abbiamo fatto finora, dobbiamo investire sulle università e sulla formazione qualificata. I Paesi più avanzati come Stati Uniti e Germania lo hanno già fatto, raddoppiando il finanziamento alla ricerca e alle Università e lo hanno fatto nel momento più difficile, all’inizio della crisi del 2007/2008. Una scelta del genere è obbligata, vitale per un Paese come il nostro che non ha materie prime ed è fondamentalmente un Paese trasformatore. In queste condizioni
il capitale umano è l’unica vera ricchezza. Non ci mancano certamente creatività e idee, quello che ci manca sono i mezzi per svilupparle con finanziamenti adeguati.(...)

Oggi l’innovazione è l’arma vincente. L’innovazione si può avere solo con una università viva, con una ricerca all’avanguardia e con una formazione universitaria qualificata e accessibile ai più. Altrimenti il destino del nostro Paese è segnato come lo è quello dei nostri giovani che, per dirla con Dutch Nazari giovane e brillante “cantautorapper”, rischiano di diventare «una generazione cresciuta con la mentalità da ricchi e il futuro già scritto da straccioni».

Tomaso Patarnello

Prorettore Università di Padova

Caro Patarnello, non è possibile non vedere l’importanza di quanto scrive. Nell’epoca della conoscenza l’investimento fondamentale è quello che una società dedica al suo “capitale umano”, con la ricerca e la formazione. Se questo non lo capisce, la società declina. Ma se poi quella società introduce leggi il cui effetto principale è impedire un aumento della popolazione universitaria per motivi essenzialmente demagogici e per pregiudizi anti-accademici, allora quella società si dimostra non solo declinante ma anche autolesionista.

PS. La versione completa della lettera è sul blog Crossroads di Nòva100 a partire da questo pomeriggio.

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