Artigiani e robot che lavorano gomito a gomito usando i medesimi strumenti per manipolare i pezzi.
Operai giovani e tatuati che si muovono tra le macchine che producono armadi automatizzati controllando la produzione dagli schermi dei loro tablet. Linguisti che insegnano la grammatica e la sintassi a computer che imparano a riconoscere il significato dei testi. Gestori di piattaforme per la micrologistica cittadina che si preoccupano della qualità della vita dei loro trasportatori. Sindacalisti che vogliono “contrattare l'algoritmo” di quelle piattaforme. Esperti di marketing sui social network che tengono la foto di Mark Zuckerberg nella nicchia della chiesa sconsacrata dove ha sede la loro azienda. La ricerca sul lavoro del futuro si è finora sviluppata come una sorta di viaggio in luoghi dove è probabile che qualcuno ci stia pensando: Luxottica, Modula, Expert System, Deliveroo, Cgil, Black Marketing Guru e molti altri. In queste prime cinque puntate è emersa una varietà di soluzioni che mostra come non ci sarà una sola risposta alle domande latenti nella società. Ma chi ci sta pensando, in quelle organizzazioni, si accorge che per connettere sul piano pratico le opportunità offerte dalla trasformazione in atto e i valori che conducono il progetto aziendale o sociale bisogna pur avere un'idea di prospettiva. Sicché, a questo punto del viaggio si avverte forse la necessità di fare una pausa di riflessione e parlare di quella prospettiva.
Innanzitutto vale una prospettiva larga. Perché di fronte alla vastità del cambiamento occorre contestualizzare lo specifico del lavoro nel quadro più ampio degli scenari aperti dalle grandi sfide scientifiche, tecnologiche, economiche, sociali, culturali e persino ecologiche che gli umani si trovano ad affrontare. Le Nazioni Unite si sono date 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile globale da raggiungere per il 2030 e tra questi c'è l'obiettivo di trovare un lavoro decente per tutti, in un pianeta nel quale ancora oggi più o meno la metà della popolazione mondiale vive con l'equivalente di circa due dollari al giorno o poco più e il progresso tecnologico non genera vantaggi equamente distribuiti. Anzi, secondo l'Ocse, tende ad allontanare gli inclusi e gli esclusi dalle dinamiche dell'innovazione tecnologica, anche nelle economie sviluppate. La stessa International Labour Organization, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di promuovere il lavoro e proteggere le persone, ha avviato una grande iniziativa sul futuro del lavoro, studiando il tema e creando una commissione di esperti - tra i quali l'ex ministro del Lavoro italiano Enrico Giovannini - per definire un percorso analitico che porti a comprendere come si possa creare un lavoro del futuro che porti opportunità di lavoro sostenibile per tutti.
Si tratta di obiettivi realistici? I problemi sono persino troppo chiari. Ci sarà abbastanza lavoro nell'economia produttiva dominata dalle nuove macchine intelligenti? Quel lavoro sarà soddisfacente? Come ci si prepara a quel lavoro? Spesso la reazione a queste domande è un insieme di paure irrazionali e di speranze ingenue. Ma anche nel dibattito informato ci sono poche certezze. La tecnologia attraversa una fase di accelerata trasformazione. I modelli di business abilitati dal digitale sono capaci di generare innovazioni dirompenti. Le sicurezze sulle quali si appoggiavano i lavoratori e le aziende del passato sono messe in discussione. Ma la risposta non è fermare il processo: è piuttosto un salto culturale, che deve attraversare insieme le imprese e i loro collaboratori. Perché l'aumento di produttività consentito dalle nuove macchine e la profittabilità dei nuovi modelli di business innovativi non elimina necessariamente lavoro ma quasi certamente lo trasforma.
In che senso? David Autor e Anna Salomons, rispettivamente dell'Mit di Cambridge nel Massachusetts e di Utrecht in Olanda, hanno cercato di dare una risposta con il loro paper intitolato “Does productivity growth threaten employment?” dedicato appunto al dubbio secondo il quale la crescita della produttività potrebbe minacciare l'occupazione. E la loro conclusione è che la trasformazione tende a ricollocare il lavoro dalle attività dirette alla produzione di beni industriali che richiedevano soprattutto lavoratori di medie competenze verso servizi che polarizzano la domanda di lavoro: da una parte, persone con elevate conoscenze, dall'altra parte, lavoratori con capacità molto limitate. Sicché la produttività non diminuisce la domanda aggregata di lavoro ma la polarizza, appunto, in base alla preparazione dei lavoratori.
C'è chi vede in tutto questo soprattutto le opportunità e chi si concentra sui rischi. Ma la realtà è probabilmente un insieme complesso di possibilità, progetti, fallimenti, drammi e successi. Le scelte operative - delle aziende e dei lavoratori - discendono anche dalla loro visione del futuro. Chi la studia?
Una prospettiva è tracciata nel nuovo libro di Andrew McAfee ed Erik Brynjolfsson, “Machine, platform, crowd” (Norton 2017), intorno alle conseguenze dell'avvento di un sistema produttivo rinnovato dalla triade di fenomeni sintetizzati nel titolo: macchine che imparano, piattaforme digitali, intelligenza collettiva. McAfee e Brynjolfsson suggeriscono che le aziende capaci di competere si porranno il problema di pianificare lo sviluppo tenendo conto dell'evoluzione del rapporto tra macchine e umani. Ma gli altri due pilastri del ragionamento sono altrettanto importanti. La logica delle piattaforme che organizzano il prodotto e la relazione tra la domanda e l'offerta è ineludibile. Non solo nei servizi - logistici o altro - ma anche nelle aziende manifatturiere: l'industria 4.0 è fondata sull'idea che le fabbriche siano progettate in modo da rispondere immediatamente alla domanda grazie a piattaforme informatiche che tengono conto di tutti i dati emergenti dai processi produttivi, coordinano tutte le operazioni, comunicano con il contesto. Infine, McAfee e Brynjolfsson vedono nella logica della co-progettazione un elemento fondamentale di riorganizzazione delle aziende. Allargando il concetto si tratta dell'idea di open innovation: l'innovazione si fa in collaborazione con tutti i soggetti che contribuiscono nell'ecosistema.
È uno degli scenari. Migliorare l'analisi del futuro è parte del progetto di ricerca sul lavoro del futuro. Ma che cosa sappiamo del futuro? Sappiamo soltanto che il futuro è la conseguenza di ciò che si fa nel presente. Talvolta si agisce in base a una previsione. Il che non è una garanzia di successo. Come diceva magnificamente l'Economist: «L'economia è la scienza che studia perché le sue previsioni non si sono avverate». Secondo l'Institute for the Future, la prima legge degli studi sul futuro è: «Non esistono fatti del futuro, ma solo narrative». E appunto, molto spesso, le scelte si operano in funzione delle conseguenze che si pensa avranno all'interno delle narrative accettate. La sostituzione diretta di persone con macchine, per esempio, senza valorizzazione delle risorse umane esistenti in azienda è relativa a una narrativa, iperfinanziaria, peraltro poco praticata nelle aziende intervistate nel corso di questa inchiesta a puntate. Piuttosto vale un'idea diversa: quella secondo la quale le macchine possono mettere gli umani nelle condizioni di spostare la loro attenzione verso attività a maggiore valore aggiunto, relative alla qualità del prodotto o alla creatività del progetto.
«Di certo bisogna lavorare con molto senso critico» dice Stefano Hesse, manager dall'esperienza internazionale in aziende del calibro di Google, Facebook, Aviva. «La visione del futuro giusta per la nostra azienda non è quella che va di moda. E le persone che servono alla nostra azienda non si possono definire con schemi apriori. Una delle mie battaglie a Google è stata quella di assumere anche persone che non erano laureate a Stanford. Volevo portare diversità nel team. La qualità del risultato aziendale dipende dalla qualità delle persone e dal modo che hanno di lavorare insieme». La questione digitale non riguarda lo strumento: è un modo di pensare, empirico, visionario, orientato al progetto e al futuro. «E questa mentalità si concretizza sempre in due generi di domande: che cosa possiamo imparare dagli altri? E che cosa vogliamo diventare nei prossimi cinque anni?». La strategia che Hesse suggerisce e peraltro ha applicato anche al suo contributo al Digital Garage di Aviva, per l'open innovation nella grande compagnia di assicurazioni, è chiara: «Immaginare che cosa saremo tra cinque anni e fare una sorta di reverse engineering. Non credere alla fuffa tecnologica di moda. Assumere senza preconcetti le persone dotate delle capacità di cui c'è bisogno. Valorizzare le persone che sono già nella squadra e conoscono l'identità dell'azienda. Quello che va bene per altri non va necessariamente bene per la nostra azienda».
Non sappiamo se con questa mentalità raggiungeremo gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Ma almeno possiamo dichiarare che non è impossibile progettare un lavoro del futuro che non si lasci travolgere dalle novità. La disoccupazione tecnologica di massa non è un destino ineluttabile. Una soluzione umanamente decente è possibile.
© Riproduzione riservata