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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Il sistema finanziario globale: quanto è stabile?

  • –di Benjamin

Solo dieci anni fa, il 9 agosto 2007, la banca francese BNP Paribas decideva di limitare l'accesso degli investitori ai soldi che avevano depositato in tre fondi che gestivano all'incirca 2,2 miliardi di dollari, una manovra di congelamento senza precedenti, che però all'epoca passò quasi inosservata al di fuori del mondo finanziario.
Si sarebbe poi dimostrato un segnale di allarme imminente. Nei mesi successivi, i sistemi di pagamento e i mercati di capitale subirono una forte contrazione ovunque, e il sistema finanziario globale evitò il temuto collasso totale. Alla fine del 2008 il mondo faceva i conti con la peggiore crisi economica dalla Grande Depressione.

Eppure dopo dieci anni e mentre la Federal Reserve americana, la Bank of England e la Banca centrale europea iniziano a normalizzare i tassi di interesse e si allontanano dalle politiche straordinarie (soprattutto dal quantitative easing) utilizzate per far fronte alla crisi, ci chiediamo ancora cosa abbiamo imparato da quell'esperienza quasi letale. E anche se si è fatto molto per ridurre il rischio di replica, resta una domanda cruciale: siamo più sicuri ora di dieci anni fa?
Se le recenti riforme politiche siano sufficienti o meno per sostenere la stabilità finanziaria globale è oggetto di intenso dibattito – un dibattito cui hanno sempre preso parte i commentatori di Project Syndicate.

I fatti
In pochi metterebbero in dubbio i vantaggi di un sistema finanziario globale competitivo e aperto. Mercati finanziari estesi, profondi e resilienti sono cruciali per far girare gli ingranaggi del commercio globale. Aiutano i risparmiatori a diversificare il rischio e consentono ai mutuatari di ottenere crediti a costi inferiori. E favoriscono tutti in termini di convenienza dei cambi e certezza dei capitali.
Ma un sistema finanziario globale presenta anche precisi svantaggi. In particolare, è incline alla crisi. Come faceva notare nel 2012 l'ex presidente della Federal Reserve americana Paul Volcker, tutti “i sistemi finanziari, sia in Asia negli anni 90 o un decennio dopo negli Stati Uniti e in Europa, sono vulnerabili alle crisi”.

Potrebbe volerci diverso tempo prima che si verifichino delle crisi. Ma una volta esplose, spiega il capo consigliere economico Allianz Mohamed El-Erian, “tendono a diffondersi rapidamente, in modo ampio, in modo violento e (in apparenza) in maniera indiscriminata”, dal momento che “le condizioni finanziarie generali passano rapidamente dall'abbondanza alla carestia”. Lo sappiamo perché tali crisi sono state una caratteristica ricorrente e dolorosa dei mercati finanziari da quando sono nate le prime banche nelle città-stato dell'Italia all'epoca del Rinascimento. Ovviamente, come le famiglie infelici di Leo Tolstoy, ciascuna “infelice a proprio modo”, i particolari delle crisi finanziarie differiranno sempre, e ciascuna infliggerà il proprio tipo di sofferenza.

In poche parole, BNP Paribas iniziò il suo declino quando i mercati globali di capitale indulgevano ai debiti. Molti osservatori sono concordi nel dire che la crisi sia iniziata negli Usa, con una bolla immobiliare che si è gonfiata fino a scoppiare a metà del 2007. Ma i mutui subprime in America sono stati solo la punta dell'iceberg. Sotto la superficie, i massicci incrementi di derivati rischiosi si erano accumulati in tutto il mondo, mentre gli investitori e le istituzioni cercavano sempre più liquidità e leva finanziaria. Una volta scesi i prezzi degli asset, molti titoli sono diventati tossici. E quando qualcuno tentava di salvarsi, metteva a rischio l'intera nave.

Cosa più importante, fa notare Stefan Gerlach, ex vice governatore della Central Bank of Ireland, la crisi era dovuta a “una combinazione di debole gestione dei rischi interni e un'adeguata regolamentazione da parte del governo”. Da un lato c'erano i banchieri che, convinti del proprio acume finanziario, erano diventati sempre più ciechi di fronte ai pericoli latenti delle recenti innovazioni di mercato. Dall'altro c'erano gli enti di vigilanza nazionale, inclini a lasciare il settore ai propri strumenti e a confidare nel fatto che si sarebbe auto-corretto all'occorrenza.

Col senno di poi, è chiaro che entrambi si siano fatti sedurre dalla relativa calma prevalsa dalla crisi finanziaria asiatica del 1997. In un'era che divenne nota come la Grande Moderazione, osserva Jim O'Neill, ex presidente di Goldman Sachs Asset Management, “subentrò la noncuranza”. Questa atmosfera ottimista fu catturata dall'ironico titolo di un importante libro del 2009 scritto da Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff di Harvard. In Questa volta è diverso, Reinhart e Rogoff dimostravano che il periodo antecedente l'ultima crisi non fosse affatto diverso, ma faceva parte di un vecchio schema.

Tutti ai posti di manovra
All'apice della crisi nel 2008, ricorda Harold James della Princeton University, i politici giunsero alla conclusione “che non avrebbero potuto andare avanti come sempre”. Per prevenire un totale collasso, gran parte dei governi del G20 – comprese le due maggiori economie, Cina e Usa – “lanciò programmi di stimolo su vasta scala”. Contemporaneamente subentrarono le banche centrali “per fornire liquidità su scala massiccia” per i mercati finanziari congelati. Queste iniziative funzionarono. La cosiddetta Grande Recessione di fatto si rivelò essere una breve contrazione a forma di v, dopo la quale la crescita globale ripartì, seppur lievemente, e le condizioni monetarie si stabilizzarono. I leader di governo, conclude James, “avevano ragione a compiacersi per aver evitato che si ripetesse la Grande Depressione”.

Non potrebbe essere più vero per la Fed, che subentrò rapidamente come prestatore globale di ultima istanza, concordando swap valutari con altre 14 banche centrali, così da riuscire a soddisfare la domanda di dollari delle loro economie. Al suo picco nel dicembre del 2008, l'eccezionale credito della Fed con questi accordi totalizzava 580 miliardi di dollari, insieme ad altri 500 miliardi di dollari attraverso vari programmi tesi a supportare le banche private all'estero. Come scriveva nel 2014 James, la Fed “è effettivamente emersa dalla crisi come la banca centrale del mondo”.

Una volta divenuto chiaro che un'altra Grande Depressione era stata evitata, i politici spostarono l'attenzione sul settore finanziario dove, come osserva Antonio Foglia dell'Institute of New Economic Thinking, “circa metà delle 101 banche con bilanci superiori a 100 miliardi di dollari nel 2006” erano fallite. Le successive riforme, spiega Simon Johnson del MIT Sloan, si focalizzavano soprattutto sulle istituzioni finanziarie che “erano così ampie rispetto all'economia da essere ‘importanti a livello sistemico' e da non poter essere lasciate andare in bancarotta”.

In misura sorprendente, fa notare Howard Davies, presidente della Royal Bank of Scotland, “i governi sospettati di interferenze internazionali” all'improvviso “divennero desiderosi di regole globali più rigide per evitare che le crisi bancarie si propagassero oltre i confini e infettassero altri”. Queste regole arrivarono da organismi di normazione globali come il Comitato di Basilea e il Financial Stability Board (FSB), creato nell'aprile del 2009 come versione ampliata del vecchio Financial Stability Forum. Il Comitato di Basilea, attivo sotto l'egida della Bank for International Settlements, emise un'ampia serie di regole bancarie post-crisi, note come Basilea III, nel 2010-2011. E l'FSB convoca con cadenza regolare banchieri centrali ed enti di vigilanza finanziari provenienti da oltre una decina di paesi per monitorare i rischi globali e coordinare la supervisione.

A seguito di tali interventi, le banche delle economie avanzate devono ora dimostrare di detenere riserve di capitale per assorbire i rischi, pulire bilanci oscuri, incrementare la liquidità, migliorare la trasparenza, restringere la portata delle attività ad alto rischio e riallineare gli incentivi interni per scoraggiare comportamenti imprudenti. Inoltre, i governi ora conducono regolarmente “stress test” per valutare la solvibilità delle istituzioni finanziarie. E con il Dodd-Frank Act del 2010, le più grandi banche Usa sono obbligate a creare “testamenti in vita” per garantire una bancarotta ordinata.

Il paziente zero della crisi
El-Erian parla a nome di molti quando dichiara che “le attuali misure adottate per irrobustire il sistema finanziario globale hanno senza dubbio pagato, soprattutto in termini di rafforzamento dei margini di patrimonio e di pulizia dei bilanci”. Non manca però di far notare che “è troppo presto per cantar vittoria”. Così anche Gerlach dichiara che sarebbe un errore sopravvalutare “il potere di prevenzione delle crisi del nuovo ambiente di regolamentazione”. A suo avviso, “il pericolo di un'altra crisi finanziaria” non si può escludere, considerata la persistenza dei rischi sistemici.

Mark Roe della Harvard Law School identifica, ad esempio, “una grave debolezza nell'architettura del sistema finanziario globale” che non è ancora stata affrontata: “il mercato repo overnight da migliaia di miliardi di dollari nei mutui sulle case”. Secondo Roe, le riforme in quest'area del settore finanziario non sono sufficienti, “soprattutto perché dipendono dalle autorità e dalle banche che devono completare un processo complesso e non testato di pagamenti entro 48 ore dal collasso di una banca”. Se un “evento finanziario economico” causa il “simultaneo collasso di diverse società finanziarie”, avverte, questo processo sarebbe “estremamente difficile”, se non impossibile, da completare. Roe teme che quando il mercato immobiliare Usa batterà in ritirata, come alla fine accadrà, “la stabilità finanziaria potrebbe essere minacciata” ancora una volta.

Anche Johnson sostiene che, malgrado la clausola dei “testamenti in vita” del Dodd-Frank, “non vi siano stati progressi in termini di garanzie nell'eventualità che le grandi società finanziarie vadano in bancarotta”. I legislatori americani hanno effettivamente raggiunto un punto di stallo su come concludere al meglio “questo importante punto dell'affare Dodd-Frank”. E come ci ricorda Nouriel Roubini della NYU, le banche stanno affrontando una serie di nuove sfide, come “l'ascesa della tecnologia finanziaria che minaccia di sconvolgere i modelli di business già in difetto”.

Più in generale, fa notare il premio Nobel ed economista Robert Shiller, nessuna risposta politica all'ultima crisi “può prevedere tutti i cambiamenti delle narrazioni che sottendono agli spiriti animali pubblici”. Teme che anche se le 24 maggiori economie del mondo si sono formalmente accordate per adottare i requisiti patrimoniali basati sui rischi di Basilea III, tali requisiti “potrebbero non essere abbastanza elevati”. E in ogni caso, “sono stati fatti pochissimi passi avanti in una decina di altre aree di regolamentazione previste dal FSB”.

Secondo il recente progress report annuale del FSB, l'adozione degli standard di Basilea III sulla leva finanziaria, sui finanziamenti e su altre aree è stata disorganica, alla meglio. Il problema, secondo Davies, è che “molti paesi, pur sostenendo apparentemente lo sviluppo di regole globali più restrittive, intraprendono altre misure per tutelare i propri sistemi finanziari”. Da questa prospettiva, “il futuro degli standard globali sembra più incerto di quanto non sia stato per un certo periodo”.

Un altro problema è che gli enti di vigilanza degli Stati Uniti e dell'Eurozona dissentono sul ruolo che i modelli interni di una banca debbano rivestire nel misurare i propri asset. Poiché le istituzioni finanziarie Usa ed europee contano diverse pratiche di prestito e portafogli di asset, i negoziati su questo tema si trascinano da anni. Considerando questi ostacoli, sembra giustificato un certo grado di cautela. Le misure di difesa messe in atto oggi sono certamente migliori che in passato. Ma nessuno può sapere tutto ciò che potrebbe accadere nel settore bancario. Shiller avverte infatti che gli eventi imprevisti “potrebbero ancora una volta rivelare delle crepe nella nostra armatura finanziaria”. Banchieri e regolatori dovrebbero usare il motto dei boy scout: siate preparati.

Rischi che migrano
Un'altra area di preoccupazione esula dal settore bancario formale. Focalizzandosi così attentamente sulle banche tradizionali, i governi rischiano di trascurare altre minacce potenziali, come un generale che si prepara per la guerra successiva rievocando l'ultima. Gerlach, dal canto suo, paragona l'attuale “ambiente regolatore” a “una nuova autostrada: è tecnicamente più sicura di una strada secondaria, ma attira anche più macchine che viaggiano a velocità ben più elevate, e così si verificano gli incidenti”.

Se iniziamo a cercare le minacce lungo la strada davanti a noi, non sarà difficile scorgerle. Shiller spiega, ad esempio, il pericolo dei fondi del mercato monetario, che offrono “tassi di interesse leggermente più elevati, ma senza la garanzia che tutela i depositi bancari in molti paesi”. Molti fondi del mercato monetario sono diventati “un'alternativa alle banche per tenere il proprio denaro”, e potrebbero andare in rovina “se un gran numero di persone tentasse di prelevare denaro nello stesso momento”. È come se tornassimo indietro all'epoca delle “wildcat bank” del diciannovesimo secolo.

Anche El-Erian teme le conseguenze involontarie delle banche soggette a regole più stringenti rispetto al circuito non bancario. Fa notare che “le banche maggiormente regolamentate hanno cessato alcune attività”, lasciando semplicemente spazio “alle attività non bancarie che non sono soggette agli stessi standard di vigilanza e regolamentazione”. Inoltre, continua, “alcuni segmenti del sistema non bancario” sarebbero “in preda a un'‘illusione di liquidità'”. In assenza di un'adeguata supervisione, le società offrono prodotti che “promettono condizioni di liquidità che potrebbero non essere in grado di garantire ai clienti che operano in alcune aree – come i corporate bond ad alto rendimento e quelli dei mercati emergenti – che sono particolarmente vulnerabili alla volatilità dei mercati”.

E poi ci sono i pericoli che non abbiamo ancora rilevato, ciò che l'ex segretario alla Difesa Usa Donald Rumsfeld definiva “unknown unknowns”, cose sconosciute che non conosciamo. Da qualche parte nei complessi recessi della finanza globale, esistono sicuramente delle cose sconosciute che non conosciamo che potrebbero scatenare una nuova crisi. “Sarebbe prematuro”, avverte giustamente El-Erian, “affermare che abbiamo gettato alle nostre spalle tutti i rischi inerenti il sistema finanziario”.

Banchieri centrali allo stato brado
Un terzo punto di preoccupazione è la politica monetaria. Le banche centrali hanno rivestito un ruolo centrale nel salvare l'economia globale nel 2008-2009, pompando sufficiente liquidità nel sistema affinché restasse a galla. Ma molti osservatori ora temono che le banche centrali non siano in grado di replicare tale risposta di nuovo, se necessario.

Le banche centrali sono per loro natura conservatrici e possono essere lente nel reagire di fronte a shock improvvisi. E come ci ricorda Davies, “si sono addormentate al volante nei primi anni del secolo”. Inoltre i banchieri centrali hanno consentito “l'accumularsi di squilibri globali, guardato benevolmente ad una enorme bolla del credito, ignorato i segnali lampeggianti di pericolo nel mercato dei mutui e ammirato acriticamente i prodotti innovativi, ma tossici, messi a punto da banche d'investimento strapagate”. Quando crollò il sistema, i custodi del denaro rimasero sorpresi come chiunque altro.

Inoltre, la reazione iniziale di molte banche centrali all'ultima crisi fu lenta e insicura. Davies, non senza una punta di sarcasmo, osserva che “la Bank of England ha tenuto lezioni sull'azzardo morale mentre intorno il sistema bancario implodeva, e la Banca centrale europea ha continuato a uccidere i draghi immaginari dell'inflazione”. Solo quando entrò in scena la Fed anche le altre banche divennero più proattive.

Resta da vedere se i banchieri centrali abbiano imparato dai propri errori. Stephen Roach di Yale non è di quest'avviso. Una volta lanciate le politiche non convenzionali come il quantitative easing (QE) e i tassi di interessi ultra-bassi, non sono più riuscite a fermarsi. Tutto l'eccesso di liquidità iniettato nei mercati finanziari, avvertiva nel settembre del 2016, incoraggiava “un'imprudente assunzione dei rischi” e creava “un ambiente di eccesso basato su asset” non dissimile da quello che “covava la crisi finanziaria globale del 2008-2009”.

Ovviamente, in assenza di stimoli fiscali sostenuti dopo la Grande Recessione, le politiche monetarie non convenzionali erano ragionevolmente giustificate dalla necessità di evitare che la lenta ripresa perdesse forza. E a settembre di quest'anno, la Fed ha annunciato che avrebbe iniziato a ridurre le obbligazioni in suo possesso, lasciando intendere che avrebbe attuato un altro modesto incremento dei tassi di interesse a dicembre.

Roubini teme però che con un tasso di riferimento all'1-1,25% oggi, “anche se la Fed riuscisse a riportare il tasso di equilibrio al 3% prima della prossima recessione, non avrà comunque abbastanza spazio di manovra per agire in modo efficace”. Nel caso di un'altra contrazione, avverte, “i tassi di interesse scenderanno sotto il limite inferiore dello zero prima di poter avere un impatto significativo sull'economia”. Su questo punto anche Gerlach sostiene che “gli strumenti che le banche centrali hanno a disposizione per prevenire la deflazione e un collasso dell'economia reale sono notevolmente limitati”. Ciò significa che “se dovesse verificarsi oggi una crisi finanziaria, le sue conseguenze per l'economia reale potrebbero essere più gravi che in passato”.

A complicare ulteriormente le cose c'è il fatto che i banchieri centrali sono diventati il bersaglio di un malessere pubblico. Avendo acquisito vasti poteri normativi e macroeconomici dopo la crisi del 2008, ora sono visti come “potenti cittadini” che necessitano di ulteriore vigilanza. Come sostiene Davies, “un'istituzione che acquista obbligazioni con denaro pubblico, decide sulla disponibilità di finanziamenti ipotecari e liquida le banche a caro prezzo per i loro azionisti, richiede una diversa forma di responsabilità politica”.

Il problema è che la vigilanza politica, se non viene “concepita con cura straordinaria”, potrebbe compromettere l'indipendenza delle banche centrali. E la mera minaccia di perdita dell'indipendenza potrebbe far desistere i banchieri centrali dall'utilizzare tutti gli strumenti a loro disposizione, anche laddove le circostanze lo richiedessero.

Il post-crisi
E qui torniamo al ruolo della politica nel determinare se oggi i nostri sistemi economici siano sicuri oppure no. La crisi del 2008 è stata immediatamente seguita da un'ondata di supporto pubblico per le riforme, culminata nel 2010-2011 con il Dodd-Frank Act e con l'accordo di Basilea III. Ma appena sono svanite le memorie dell'esperienza quasi letale, così è scomparso l'entusiasmo di riforma. Il pericolo ora è che le misure fortemente necessarie nel dopocrisi non saranno attuate. “La finestra politica di opportunità per azioni audaci”, lamenta El-Erian, si è “praticamente chiusa”.

Un'azione di questo genere sarebbe quella di rafforzare il FSB, che, come osserva Ngaire Woods della Oxford University, “non ha alcun vincolo legale o poteri di applicazione, né processi formali per includere tutti i paesi”. Ma le proposte per espandere il mandato del FSB sono state accolte con indifferenza. Per il momento, conclude Woods, il FSB resterà “uno ‘standard setter' in un mondo con forti incentivi per evadere standard e sanzioni trascurabili per farlo”.

Peggio ancora, ci sono ora crescenti pressioni politiche per annullare le principali riforme post-crisi. Il presidente americano Donald Trump non ha nascosto la propria distanza sia dal Dodd-Frank che da Basilea III. “È improbabile”, riflette Davies, “che l'impegno di “far grande l'America ancora una volta” possa implicare nuovo entusiasmo per regole più intrusive”.

Subito dopo il suo insediamento, scrive Jeffrey Frankel di Harvard, “Trump ha emesso un ordine esecutivo diretto a una totale revisione della normativa Dodd-Frank sulla riforma finanziaria” con l'obiettivo di ridimensionare “significativamente il sistema normativo messo in atto in risposta alla crisi finanziaria del 2008”. Allora, in giugno, il Dipartimento del Tesoro Usa pubblicò un documento di 150 pagine per spiegare in dettaglio le proposte dell'amministrazione Trump tese a deregolamentare le grandi istituzioni finanziarie. Il piano ha provocato l'immediata reazione sia del presidente della Fed Janet Yellen che del vice presidente, Stanley Fischer, per citarne alcuni.

A livello internazionale, Davies sostiene che le regole bancarie potrebbero restare in vigore ed essere razionalizzate, considerata la complessità con cui sono cresciute dal 2008. Che non significa sostenere “un ritorno a una situazione pre-crisi del tipo “liberi tutti””. Una volta che il pendolo politico inizierà ad oscillare di nuovo verso la deregolamentazione, le istituzioni finanziarie faranno a gara per chiedere quanto più margine d'azione possibile. Prima o poi il vecchio schema di arroganza, vulnerabilità e crisi riemergerà, e dall'abbondanza si passerà ancora alla carestia.

Traduzione di Simona Polverino
Benjamin J. Cohen, professore di economia politica internazionale presso la University of California, Santa Barbara, è autore del recente Currency Power: Understanding Monetary Rivalry.
Copyright: Project Syndicate, 2017.
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