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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Il potere delle donne

La scorsa settimana, con una raffica di tweet, il presidente americano Donald Trump ha accusato Carmen Yulín Cruz, sindaco di San Juan, Puerto Rico, di “scarsa leadership” dopo che quest’ultima aveva osato criticare la risposta del governo federale Usa all’uragano Maria. Il capriccioso cinguettio di Trump ha un sapore del tutto paradossale: non era mai accaduto che l’elezione di un presidente americano spingesse alla disperata ricerca di leader alternativi in patria e all’estero.

Ma l’attacco di Trump ha altresì sollevato la questione di cosa significhi essere un leader politico in quest’era di ampollosità populista. Un tempo Thomas Jefferson metteva in guardia dai leader meschini che, come Trump, permettono alle “loro grevi passioni” di renderli “incapaci di lavorare per il proprio paese”. Come corollario all’osservazione di Jefferson, si può aggiungere che, in una società pluralista, la leadership richiede la volontà di confrontarsi con circostanze difficili e talvolta con scelte impossibili, in nome della res publica.

Cruz non è l’unico ufficiale pubblico donna ad aver affrontato – e nel suo caso, superato – un difficile test di leadership in questi giorni. In Giappone, Yuriko Koike, governatore di Tokyo e aspirante premier, ha dovuto rispondere repentinamente dopo che il primo ministro Shinzo Abe, pur dovendo fare i conti con le più gravi crisi di politica estera del Giappone dopo decenni, ha indetto le elezioni anticipate per consolidare la sua maggioranza parlamentare. Abe, temendo la crescente popolarità di Koike sulla scia della sua schiacciante vittoria alle elezioni per l’Assemblea cittadina di Tokyo la scorsa estate, sperava di prenderla in contropiede. Ma Koike ha annunciato la formazione di un nuovo partito politico, che intende guidare fino alle elezioni mantenendo la sua carica attuale. Se vincerà, dovrà affrontare il dilemma meno invidiabile di sempre: rispondere alla minaccia nucleare del regime nord-coreano.

Nel frattempo, in Germania, la cancelliera Angela Merkel, un faro di liberalismo in un’epoca illiberale, deve governare dopo un’elezione in cui l’estrema destra ha raccolto consensi senza precedenti. E negli Stati Uniti, il presidente della Federal Reserve Janet Yellen sta, per certi versi, sopportando il peso dell’economia americana sulle proprie spalle, mentre tenta di riportare la politica monetaria alla “normalità” in condizioni domestiche ed esterne che restano fortemente incerte.

E nel sud-est asiatico, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi ha testato – e secondo molti superato – i limiti del compromesso morale. Come leader di fatto del governo civile del Myanmar, Suu Kyi ha risposto alla catastrofe umanitaria che sta affliggendo la minoranza musulmana del paese in un modo che l’ha resa in qualche modo complice, per la delusione dei suoi ex sostenitori.
Le donne al potere riempiono le prime pagine, così i commentatori di Project Syndicate ci forniscono un quadro approfondito delle loro sfide. Se c’è qualcosa da imparare dalle esperienze di queste donne, è che i leader più validi sono coloro che riescono a trascendere le “grevi passioni” e l’ottusità politica delle loro società – e spesso dei propri partiti.

La Merkel tra l’incubo…
Dopo le elezioni federali della Germania il 24 settembre, il primo compito della Merkel, osserva l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer, è di “formare un governo di maggioranza stabile”. Un fallimento in tal senso, avverte, “probabilmente segnerebbe la fine del suo mandato di cancelliere”, che “potrebbe sfociare in uno periodo di caos politico”. Ma, aggiunge Fischer, la Merkel è anche “fortunata”, nella misura in cui il suo partito, l’Unione cristiano-democratica (CDU), non ha a portata di mano nessun “leader alternativo credibile o parimenti popolare” che possa sostituirla.

Fortuna o meno, osserva Daniela Schwarzer del Consiglio tedesco per le relazioni estere, il nuovo governo della Merkel “sarà notevolmente più debole dei tre che l’hanno preceduto”. La CDU conterà ancora “la maggioranza dei seggi in parlamento”, ma avendo ottenuto solo il 33% dei voti, “il peggiore risultato dopo il 1949”. Nel frattempo, anche l’ex partner della coalizione, il Partito socialdemocratico di centro sinistra (SPD), “ha segnato un minimo storico nel dopoguerra, ricevendo appena il 20,5% dei voti”. Negli ultimi quattro anni, la SPD e la CDU, insieme al partito “fratello” bavarese, l’Unione dei Cristiano-socialisti (CSU), hanno governato come una “grande coalizione”. Ma hanno perso terreno, a favore “del partito euroscettico, russofobo e sfacciatamente xenofobo” Alternative für Deutschland (AfD).

Essendo il primo partito di estrema destra ad entrare nel Bundestag dopo 60 anni, il successo di Alternativa per la Germania è, secondo Fischer, “una disgrazia per la Germania”. AfD probabilmente deve il suo forte piazzamento più alle circostanze che al programma.

Fischer, ad esempio, descrive il risultato delle elezioni come “un voto di protesta contro la Merkel stessa”. E come ci rammenta Harold James della Princeton University, “il voto per l’AfD, al 13%, è pressoché la stessa percentuale ottenuta dal populista Geert Wilders in Olanda ad aprile, in un’elezione che fu ampiamente vista come una disfatta per il populismo radicale”. James, esperto di storia economica tedesca, non si aspetta che l’AfD mantenga il proprio successo. E aveva prospettato “una probabile divisione all’interno della sua leadership” prima che il co-leader dell’AfD Frauke Petry, che tentava di tenere a freno le posizioni più estreme del partito, annunciasse di partecipare come membro indipendente del Bundestag.

Ma James intravede altresì dei parallelismi inquietanti tra l’attuale scena politica tedesca e quella della fallita Repubblica di Weimar tra le due guerre. In particolare, la decisione della SPD di spostarsi all’opposizione, sostiene, è simile alla “fuga dal potere” che caratterizzava l’era di Weimar, durante la quale “i partiti venivano puniti dagli elettori quando partecipavano al governo, e ricompensati quando emergevano come partiti alternativi o di protesta”. Oggi, James teme che il calo di supporto per la coalizione CDU/CSU-SPD rifletta “l’ampia frustrazione nei confronti di leader che non hanno nulla di nuovo da offrire”.

Mentre la Merkel è però sulla strada per battere Helmut Kohl come secondo cancelliere più longevo della storia dopo Otto von Bismarck, il problema del suo governo non è solo l’esaurimento delle idee politiche. Helmut K. Anheier, presidente della Hertie School of Governance, fa notare come la Merkel abbia sempre preferito “modeste iniziative politiche e incrementalismo”, invece che riforme ambiziose. Eppure, secondo Clemens Fuest, presidente dell’Istituto Ifo di Monaco, ci sono almeno cinque aree emergenti in cui il prossimo governo tedesco dovrà intraprendere azioni concrete: “digitalizzazione e automazione, cambiamento demografico, globalizzazione e integrazione europea”. Alcune di queste sfide sono strettamente domestiche; Fuest, ad esempio, chiede ai politici di innalzare l’età pensionabile per sostenere il sistema pensionistico. Ma altre, come la riforma dell’Ue e dell’Eurozona, richiederanno una maggiore cooperazione internazionale.

… e il martello
Sfortunatamente, trovare soluzioni credibili ai problemi di stampo Ue sarà alquanto spinoso per la Merkel con il prossimo governo. Con la SPD che si rifiuta di far rivivere la grande coalizione con la CDU, l’unica opzione che le rimane sembra essere una Coalizione “Giamaica” che secondo Kemal Derviş del Brookings Institution includerebbe “gli euroscettici Democratici liberi e i Verdi a favore dell’integrazione, con i suoi Cristiano-democratici in mezzo”.

All’interno di questa probabile coalizione (che prende il nome dai colori della bandiera giamaicana, che corrispondono a quelli dei tre partiti), Hans-Helmut Kotz, ex membro del Cda della Deutsche Bundesbank, attualmente docente di Harvard, si aspetta che gli integrazionisti siano in numero superiore. La posizione della FDP circa l’Eurozona, in particolare, non è tanto diversa da quella di molti deputati della CDU/CSU. Si oppone a “qualsiasi accordo che trasferisca soldi tedeschi agli Stati membri con scarsi rendimenti”, fa notare Kotz, e ha suggerito “il temporaneo abbandono della moneta unica per gli Stati membri eccessivamente indebitati”.

Non è il tipo di riforma dell’Eurozona contemplato dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker nel suo discorso allo Stato dell’Unione del 13 settembre, o dal presidente francese Emmanuel Macron nel discorso di ampio respiro tenuto alla Sorbona il 26 settembre. La visione di Macron, secondo Derviş, “fa eco a molte delle proposte di Juncker, ma sembra propendere verso una maggiore differenziazione all’interno dell’Ue, almeno nel medio termine”. Se però da un lato entrambi i discorsi, precisa Kotz, “avevano chiaramente l’intenzione di definire meglio il dibattito politico ora in atto in Germania”, dall’altro il “cuore politico del paese si è spostato e batte in direzione diversa rispetto a Juncker e Macron”.

Così anche Philippe Legrain dello European Institute della London School of Economics teme che persino le proposte più flessibili di riforma dell’Eurozona avanzate da Macron possano essere il “pomo della discordia” in Germania. Ad esempio, la richiesta di Macron di un “budget dell’Eurozona, finanziato con il gettito delle imposte sulle società” e autorizzato a “fare investimenti e fungere da cuscinetto durante le contrazioni economiche” potrebbe essere visto esattamente come quella sorta di “transfer union” cui si oppongono l’FDP e molti della CDU/CSU. Anche Anatole Kaletsky di Gavekal Dragonomics sospetta che Macron abbia tentato di dirottare questi timori invocando non solo un “budget separato”, ma anche “istituzioni politiche separate”, compresi un ministero delle Finanze e un parlamento dell’Eurozona.

La Merkel non si oppone a un budget condiviso e nemmeno alla creazione di un’autorità fiscale, in linea di principio. Ma per accettare le proposte di Macron, dovrà convincere gli elettori tedeschi e i futuri partner della coalizione che esistono ampi meccanismi per prevenire sprechi di risorse e per attribuire la responsabilità del nuovo ministero delle Finanze. Kotz, dal canto suo, dubita che la Merkel sia in grado di dimostrare l’“imprenditorialità politica” necessaria per forgiare un compromesso creativo di questo genere. Eppure, anche impedendo un grande accordo tra chi è a favore e contrario a una maggiore centralizzazione, secondo Barry Eichengreen di Berkeley, potrebbe esserci ancora un “piccolo sentiero accettabile per entrambe le parti”.

Innanzitutto, sostiene Eichengreen, l’Ue deve completare la propria unione bancaria ed eliminare la possibilità che gli “oneri imposti alle banche tedesche siano utilizzati per compensare i depositanti di altri paesi”. Poi “dovrà trasformare il proprio fondo salva-stati, European Stability Mechanism (ESM), in un vero fondo monetario europeo, European Monetary Fund (EMF)”, che andrebbe a sostituire la Commissione europea e la Banca centrale europea come guardiano dei programmi di finanziamento dell’Eurozona. Infine la Commissione europea dovrebbe fare un passo indietro rispetto al proprio ruolo di legislatore in materia fiscale. I governi degli stati membri dovrebbero poter gestire i propri affari, asserisce Eichengreen. E “se prenderanno delle decisioni sbagliate, saranno loro a ristrutturare i propri debiti”.

Oltre alle riforme dell’Eurozona, Schwarzer prevede che sarà “più semplice per i partiti della coalizione della Germania – per non parlare del governo francese e tedesco – forgiare un nuovo quadro per la cooperazione bilaterale sulla sicurezza europea”. E come suggerisce Guy Verhofstadt dell’eurogruppo ALDE, l’Alleanza dei Liberali e dei Democrati per l’Europa, la Merkel dovrebbe mostrare la propria buona volontà. Nello specifico, potrebbe dare il proprio supporto a varie iniziative sulla democrazia proposte da Macron, dato che l’FDP “appoggia le liste dei candidati transnazionali per le elezioni a livello Ue” e “intende ravvicinare i cittadini europei e portare le convenzioni democratiche negli Stati membri”.

Molti osservatori si aspettano che il quarto mandato della Merkel sia l’ultimo. Ma la questione più importante per l’Europa è se la Merkel userà i prossimi quattro anni per intraprendere azioni risolute, oppure se farà un passo indietro per paura di fomentare ancor di più il sentimento anti-Ue in patria.

Il paradosso del Comma 22 in politica monetaria
Anche Yellen naviga tra Scilla e Cariddi, in dubbio sul fare poco o fare troppo. Alla fine del 2015, la Fed ha iniziato a normalizzare il tasso di interesse; e quest’anno ha iniziato ad alleggerire il bilancio di asset acquistati nell’ambito della politica di quantitative easing (QE) lanciata dopo la crisi finanziaria del 2008. Il tasso di riferimento della Fed si attesta attualmente all’1-1,25%, e la Federal Open Market Committee potrebbe decidere per un altro modesto incremento quando si riunirà in dicembre. Poi nel febbraio del 2018 si concluderà il primo mandato della Yellen e spetterà a Trump decidere se farla proseguire per un altro mandato.

Il dilemma per la Yellen e i suoi colleghi alla FOMC è che se loro aumentano troppo rapidamente i tassi, la crescita economica potrebbe subire una frenata, ma se, come fa notare Kenneth Rogoff di Harvard, li alzano troppo lentamente, “potrebbe esserci pochissimo margine per una sforbiciata in caso di recessione”. A complicare ulteriormente le cose, dichiara Nouriel Roubini della New York University, “quest’anno la core inflation ha registrato una flessione negli Usa” malgrado la “recente accelerazione della crescita” e il basso tasso di disoccupazione. Ciò va ad aggiungersi alla complicata situazione della Yellen, perchè manca il convenzionale impeto di aumentare il tasso di riferimento, ossia l’inflazione superiore al target.

“Una possibile spiegazione alla misteriosa combinazione di crescita più robusta e bassa inflazione”, secondo Roubini, “è che, oltre a una domanda aggregata più forte, le economie avanzate stanno registrando shock positivi sull’offerta”. Ad esempio, la globalizzazione, la flessione dei prezzi delle commodity e “le innovazioni tecnologiche, a partire dalla nuova rivoluzione di Internet, stanno riducendo i costi dei beni e dei servizi”.

La tecnologia è anche il principale responsabile dietro la “crescita dei salari sorprendentemente bassa” di oggi, osserva Adair Turner dell’Institute for New Economic Thinking. “In un mercato del lavoro totalmente flessibile con un esercito di robot di riserva”, scrive Turner, “il potenziale dell’automazione pervasiva può deprimere la crescita dei salari reali anche con la piena occupazione”. Per Turner, la bassa crescita dei salari, insieme al massiccio “accumulo di debiti in sospeso”, può spiegare la “carente domanda nominale” di oggi – e quindi la carente inflazione.

Inoltre, J. Bradford DeLong di Berkeley suggerisce che l’inflazione sia debole perché “le politiche monetarie della Fed, in combinazione con le politiche fiscali, non stanno fornendo abbastanza stimoli all’economia Usa”. DeLong teme che la Fed, avendo “sovrastimato la forza dell’economia Usa per 11 anni consecutivi” possa continuare a farlo, e che “l’attuale sistema possa irresistibilmente spingere i tecnocrati della Fed a ritoccare al rialzo le proprie previsioni sull’inflazione”.

Ma Stephen S. Roach di Yale sostiene che un maggiore stimolo monetario sia l’ultima cosa di cui necessita l’economia. Di fatto, teme che l’odierna normalizzazione possa già “essere troppo esigua e troppo tardiva”. Nella sua visione, l’attuale “generazione di banchieri centrali” mostra un’insana e quasi religiosa ossessione per la strategia di “inflation targeting”, cui sono ricorsi per troppo tempo per giustificare la continuità delle politiche monetarie non convenzionali. Roach fa notare che mentre “le partecipazioni combinate di asset delle banche centrali nelle maggiori economie avanzate (Usa, Eurozona e Giappone) hanno evidenziato un’espansione di 8,3mila miliardi di dollari” tra il 2008 e gli inizio del 2017, “il Pil nominale di queste economie è cresciuto di appena 2,1mila miliardi dollari”. Ciò significa che 6,2mila miliardi di dollari “non sono stati assorbiti dall’economia reale e sono invece in circolo nei mercati finanziari globali, distorcendo i prezzi degli asset nello spettro dei rischi”.

In modo analogo, Carmen Reinhart di Harvard teme il continuo rischio di “eccessiva leva finanziaria”, che lei considera un problema fondamentale ancora irrisolto dopo la crisi finanziaria. Sinora, secondo Reinhart, i tassi di interesse ultra-bassi delle economie avanzate “hanno alleggerito l’onere” dei “significativi debiti (pubblici e privati) in eredità”. Ma ora, “i tassi sono in aumento”. Questo aggiunge un altro dubbio al dilemma della Yellen e di altre autorità monetarie: se l’eccessiva leva finanziaria minaccia di far scoppiare un’altra crisi finanziaria, le banche centrali dovranno tagliare i tassi, ma incrementare i tassi per creare i margini per i tagli futuri potrebbe comportare un incremento del peso del debito esistente.

Roach, dal canto suo, giunge alla conclusione che, “negli esuberanti mercati di oggi”, il fatto che la Yellen e i colleghi alla FOMC vogliano estendere il processo di normalizzazione fino al 2022-2023 equivale ad “andare in cerca di guai”. Se però Roach fa certamente bene ad affermare che “le banche centrali indipendenti non sono state concepite per vincere concorsi di popolarità”, ci si chiede se questo punto sarà valido anche con un presidente che vanta più esperienza nei concorsi di bellezza che in fatto di governance.

Con le dimissioni in atto del vice presidente della Federal Reserve Stanley Fischer questo mese, e il termine del mandato della Yellen in febbraio, Trump avrà la possibilità di modificare la composizione della FOMC. Non ha escluso la rinomina della Yellen. Ma non sarebbe strano per lui nominare un fedele al suo posto, qualcuno come Gary Cohn, direttore del National Economic Council della Casa Bianca. Se succederà, non si può escludere un cambio di rotta nella politica della Fed per il 2018.

Dal nobile Nobel all’ignobile
Una partita ben più sanguinosa sul campo della leadership si sta giocando ora nel Myanmar, dove l’esercito sta conducendo una campagna di pulizia etnica contro i musulmani rohingya – il più grande gruppo di persone senza stato nel mondo – nello stato occidentale di Rakhine. Suu Kyi si trova da molto tempo di fronte alla scelta difficile tra il tener fede ai valori incarnati dal suo premio per la pace e il mantenere la sua posizione di leadership in un paese con una schiacciante maggioranza buddista e un esercito che non è posto sotto il controllo civile.

Di conseguenza, dalla fine degli arresti domiciliari di Suu Kyi nel 2010, mantiene il silenzio sulla piaga dei rohingya e si attiene all’usanza militare di non nominarli nemmeno. Come scriveva Koike in un articolo del 2015, Suu Kyi ha dimostrato la “verbale evasività che ci si aspetterebbe da un comune politico, e non da qualcuno con il suo coraggio e la sua levatura”.

Nelle ultime settimane Suu Kyi sembra addirittura incalzare ancora di più l’ottusità. Secondo Ramesh Thakur dell’Australian National University, è passata dal tacere sulla violenza all’essere quasi un’“apologeta”. Il filosofo francese Bernard-Henri Lévy si spinge anche oltre, maledicendo “l’ingenuità che ha portato molti, incluso il sottoscritto, a santificarla come la ’signora di Rangoon’”. Ma dopo che Suu Kyi ha “solennemente giurato al mondo di non aver visto nulla nella città di Sittwe, che nulla era successo nel resto dello stato di Rakhine, e che tutte queste notizie allarmanti sono solo ’la punta di un iceberg di disinformazione’”, Levy giunge alla conclusione che, “il suo Nobel sia un premio-alibi”.

Una possibile spiegazione dell’apparente voltafaccia di Suu Kyi durante l’attuale crisi è che non si tratti affatto di una retromarcia: forse non ha mai sostenuto molte delle posizioni che gli osservatori le hanno attribuito. Come osserva Dominique Moisi dell’Institut Montaigne di Parigi, è possibile che “il destino di una piccolo minoranza” che corrisponde ad “appena il 4% della popolazione del Myanmar” sia semplicemente irrilevante. “Per l’aristocratica sensibilità birmana”, suggerisce Moisi, “i loro interessi non contano”.

La storia raccontata dall’Occidente potrebbe anche avere un punto cieco in merito al crescente estremismo nella regione. La comunità internazionale, osserva Brahma Chellaney del Center for Policy Research di Nuova Delhi, “non è riuscita a riconoscere che i militanti Rohingya predicano il jihad nel paese – una realtà che rende estremamente difficile spezzare il circolo di terrore e violenza”. Secondo Chellaney, i “militanti [dello stato di Rakhine] sono sospettati di avere legami con lo Stato Islamico (ISIS), al-Qaeda e altre organizzazioni terroristiche”. E soprattutto “continuano a ricevere aiuti da organizzazioni legate ai militanti dell’Arabia Saudita e del Pakistan”.

Thakur riprende questi punti. “Pochi occidentali”, lamenta, “colgono le sfide cui devono far fronte i decision-maker nei paesi in via di sviluppo che fanno i conti con l’estremismo per mano di ribelli e terroristi”. E ci rammenta che l’attuale repressione militare è iniziata “dopo che i ribelli avevano sferrato una serie di attacchi ai posti di polizia e dell’esercito in agosto”. La sua opinione è che la crisi nel Myanmar non sia solo nazionale ma anche regionale. Servirà quindi un’azione a livello regionale – guidata dall’Associazione delle Nazioni del Sudest asiatico (ASEAN) e dalle Nazioni Unite – per mettere fine agli spargimenti di sangue, a sistemare o rimpatriare i rifugiati, e a indagare e perseguire le atrocità.

Per quanto riguarda Suu Kyi, Thakur raccomanda a lei e al suo governo, con un certa urgenza, di “abrogare o modificare tutte le leggi discriminatorie e mettere fine all’istituzionalizzata discriminazione contro i rohingya” per evitare di alimentare altri estremismi. Ovviamente, per farlo Suu Kyi dovrà salvare il Myanmar dalla sua lunga storia di “grevi passioni”. Sinora non si è dimostrata all’altezza della situazione, anzi sembra essere lei stessa prigioniera di queste passioni.

Traduzione di Simona Polverino
Copyright: Project Syndicate, 2017

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