Caro De Biase,
a dicembre 2015 La Scuola Open Source (SOS) è stata uno dei tre progetti vincitori del bando di innovazione culturale “CheFare”, unico progetto a sud di Bologna. L’idea era quella di mettere insieme un centro di ricerca, una scuola, un FabLab e un ambiente di co-living per unire iniziative interconnesse e collegate dal filo rosso dell’innovazione, facendole dialogare e tramite corsi, eventi e condivisione di spazi. Un ottimo dialogo tra la neonata organizzazione, Comune, Politecnico di Bari ha permesso a La Scuola di insediarsi in uno stabile del Borgo Antico di Bari, Isolato47, in concessione dal Demanio al Politecnico ma non usato. Il palazzo è stato riempito di persone, idee e strumentazioni innovative, ospitando in meno di un anno oltre 10 corsi, eventi con ospiti di alto livello e commesse di prototipazione rapida per aziende - in un luogo fino a pochi mesi prima abbandonato. La presenza di SOS ha evitato che il Demanio revocasse al Politecnico la concessione d’uso del bene, in quanto non utilizzato: nonostante ciò, dopo poco più di un anno, La Scuola è stata cacciata da Isolato47 rapidamente e in malo modo a causa di un improvviso rinnovato interesse da parte dell’'Ateneo nei confronti dell’immobile - precedentemente in stato di abbandono: non un grazie, una motivazione, né mai una risposta alle nostre precedenti richieste di prorogare l’accordo.
SOS ha ora un’altra casa, ma perché è così difficile realizzare una convergenza tra le attività del pubblico e quelle del privato, soprattutto quando – come in questo caso – entrambi operano in funzione di un’utilità collettiva?
Lucilla Fiorentino
Presidente del Cda de La Scuola Open Source
Cara Fiorentino,
non conosco la vicenda, se non per quanto mi riferisce con la sua lettera. Conosco ovviamente “CheFare” e il suo sistema di giudizio. Sono certo che la storia meriti un approfondimento che consenta al Politecnico di spiegare la sua decisione. La questione generale che lei pone, invece si può commentare. Il fenomeno importante che sta avvenendo in questi tempi complessi sta nel fatto che nessuna struttura sembra in grado di funzionare da sola, tutti hanno bisogno di connettersi: per innovare, per mettersi in discussione, per arrivare a fornire servizi di valore, per alimentare iniziative e abilitare nuove soluzioni. Nessuno innova da solo. Ma molti hanno strutture organizzative tanto autoreferenziali da non riuscire a liberarsi dai vincoli che si pongono da sole sulla strada di questa innovazione aperta. Ebbene: questo problema non riguarda soltanto il pubblico, di certo non riguarda soltanto l’università, ma è chiaro che in queste organizzazioni la tentazione dell’autoreferenzialità è particolarmente grave. Proprio perché l’innovazione aperta ha bisogno di uno spazio pubblico, o almeno comune, nel quale tutte le componenti della società si sentano di giocare in casa.
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