Spazi aperti. Prati, ovviamente, rasati da robot. Edifici architettonicamente leggeri e tecnologicamente densi. Tradizione imprenditoriale che si respira nell’aria.
Nella tenuta di Ca’ Tron, lungo il Sile, nella campagna trevisana, a due passi dalla laguna di Venezia, H-Farm sta attraversando una mutazione: era essenzialmente un acceleratore di startup; sta diventando soprattutto una struttura che offre formazione alle persone e servizi per la trasformazione digitale delle aziende. «Abbiamo deciso di rispondere al mercato», dice il fondatore, Riccardo Donadon: «abbiamo visto che il mercato non compra molte startup ma dimostra un’enorme domanda di cultura dell’innovazione». Il modello dell’acceleratore poteva forse arrivare al pareggio, ma in troppo tempo e con troppa fatica. «Questo è un Paese di piccole e medie aziende che sanno fare cose straordinariamente apprezzate, ma che hanno bisogno di conoscere le opportunità offerte dalle tecnologie contemporanee e di assumere persone che le possano aiutare a modernizzarsi». È questo il retroterra dal quale è scaturita la nuova missione. «I servizi alla digitalizzazione delle aziende e la formazione sono mercati in pieno boom», racconta Donadon. «Oggi abbiamo un migliaio di studenti, arriveremo a 2mila l’anno prossimo e 3mila a regime». Ci sarà innovazione tecnologica e metodologica: «Stiamo scrivendo un “sistema operativo” per mettere in relazione genitori, studenti e docenti, una tecnologia “mobile first”, per creare percorsi formativi “su misura” per gli studenti: quelli bravi in una materia passeranno subito a un livello superiore, nessuno si dovrà annoiare. Anche studiando nuove materie come “innovazione”, “materiali”, “digital economy”, “modelli di business”. E poi stiamo costruendo una piattaforma per consentire a tutti gli studenti di accedere alle lezioni dei migliori docenti, con l’aiuto di un coach in aula: saranno prima video, diventeranno ologrammi; gli studenti faranno “wow!”». Il punto è che tutto questo si inquadra in un’analisi del lavoro del futuro molto precisa. «Questa generazione è fortunata perché può arrivare a svolgere lavori molto interessanti. Penso che i mestieri di ieri, il calzolaio, l’occhialaio, il sarto, diventino entusiasmanti con l’aggiunta di tecnologie elettroniche che consentono di disegnare prodotti wearable totalmente nuovi e capaci di rispondere alle esigenze di bellezza, senso e funzionalità immaginabili oggi. Vogliamo connettere il nostro territorio alle opportunità del domani. E vogliamo che la nostra scuola apra gli occhi su questo futuro».
È una visione. Su un tema centrale. La sostituzione delle macchine al lavoro umano non è ineluttabile, perché sono i progetti degli umani a guidare i fenomeni, ma per fare progetti che tengano conto delle loro conseguenze gli umani hanno bisogno di consapevolezza. E questo è il problema: la velocità del cambiamento tecnologico sfida la cultura ad accelerare per mettersi al passo. Non sempre ci riesce. Il che è una sfida al sistema educativo.
In che direzione? Nel corso di questa inchiesta a puntate, le imprese che hanno fatto passi avanti importanti nell’automazione hanno risposto: ci vogliono “specialisti dalla mente aperta”. Una contraddizione? «In passato si pensava per alternative, “o questo o quello”, ora si pensa in termini più complessi, “questo e quello”», ricorda Severino Salvemini, docente di organizzazione aziendale alla Bocconi. «Sappiamo che intelligenza artificiale, robotica, nanotecnologia, biotecnologia, stanno trasformando quello che facciamo e come lo facciamo», dice Ersilia Vaudo, astrofisica e capo del progetto Gender e Diversity dell’Agenzia spaziale europea: «L’Ocse ci dice che, da qui al 2020, più di un terzo delle competenze che saranno considerate cruciali e quindi ad alta domanda per i posti di lavoro futuri, hanno oggi una importanza secondaria: le social skills – capacità di persuasione, intelligenza emotiva, abilità nell’insegnamento; le capacità cognitive – creatività, ragionamento analitico; e le “process skills” – capacità di ascolto, critical thinking». E Vaudo aggiunge sorridendo: «Se questo è vero, con una incursione negli stereotipi, si potrebbe pensare che sarà più facile per i robot sostituire le skill maschili che quelle femminili...». Dice Salvemini, le imprese hanno imparato a selezionare i candidati per tener conto anche di questo: «E come fanno? Guardando in filigrana il curriculum dei giovani e decifrando – accanto all’indispensabile percorso scolastico di qualità – anche le esperienze sociali che i ragazzi hanno fatto: lo sport da piccoli; le esperienze teatrali e performative alla scuola superiore; il volontariato durante la sera o l’estate quando hanno vent’anni; e così via». Un approccio empirico dal chiaro significato: non è soltanto la scuola a formare i giovani e comunque quello che fa la scuola non è sufficiente. Per ora. La Commissione europea mostra il disallineamento tra le skill offerte oggi e quelle che saranno chieste in futuro, nella sua comunicazione intitolata: “On a renewed EU agenda for higher education”. Dice la Commissione: «In molti Paesi europei esiste una domanda non soddisfatta di laureati in scienze, tecnologie, arti, matematica (Steam). Inoltre, tutti gli studenti devono acquisire skill trasversali: autonomia, pensiero critico, problem-solving».
I sistemi universitari di alcuni Paesi, Olanda in testa, si sono rivelati leader in questo percorso. Harvard da tempo ha dichiarato che è necessario avere più umanisti. Università tecniche, come Losanna, si dotano di corsi di “liberal arts” o “digital humanities”. Il Centro Nexa, Internet e società, al Politecnico di Torino, non cessa di aprire strade importanti di ricerca e didattica. Non per nulla Scott Hartley scrive in un libro di successo che «le liberal arts governeranno il mondo digitale». Non è più questione di aggiornamento professionale: è una mutazione culturale della tecnologia e dell’educazione richiesta per progettarla e governarla. Alberto Di Minin, docente di Management alla Sant’Anna di Pisa, suggerisce equilibrio: «Immagino un modello formativo di eccellenza: esperienziale, perché deve mettere gli studenti a contatto con la realtà con cui poi andranno a confrontarsi; empatico, per cucire addosso allo studente un percorso formativo che gli stia bene; rigoroso, perché il libro di testo sarà superato, ma non sarà superata l’esigenza di rigore, metodo, qualità del linguaggio».
Il senso di responsabilità nei confronti del futuro deve guidare il processo. Per prepararci, dobbiamo ridisegnare l’istruzione. Ma come si sviluppa una nuova scuola? Stefano Moriggi, filosofo, epistemologo della Bicocca di Milano, da piú di sette anni fa ricerca sul campo nello sviluppo di modelli e setting di didattica digitalmente aumentata. «L’introduzione di una tecnologia in un ambiente ha sempre profonde ricadute culturali, relazionali, immaginative». Per guidare il processo occorre consapevolezza. «La scuola è costruita come prodotto culturale della tecnologia del libro». Il libro ha prodotto la classe trasmissiva, con gli studenti che ascoltano in silenzio imparando essenzialmente a non commettere errori. «Introdurre la rete nella classe significa immaginare un approccio metodologico adeguato. Il modo per farlo è recuperare la matrice culturale della rete». E dunque? «La matrice culturale della rete è stata interpretata da Tim Berners-Lee quando ha scritto la tecnologia del web: assomiglia alla comunità scientifica. Approccio probabilistico, empirico, orientato alla condivisione, dotato di tolleranza epistemologica. Se si porta la rete in classe, dunque, si deve ripensare la classe come una piccola comunità di ricerca». Realizzare questo proposito è un percorso di ricerca a sua volta. «Significa ripensare gli ambienti di apprendimento», dice Moriggi: «In modo da creare ricerca autentica. Con docenti che tendono ad assomigliare a consulenti». Moriggi chiama la sua ipotesi “classe di Bayes”: racconta che i risultati sono lusinghieri, con uno straordinario aumento della motivazione degli studenti.
Perché tutto questo è importante? Marino Golinelli, grande imprenditore e filantropo, nel giorno del suo 97esimo compleanno, aprendo a Bologna il Centro Arte e Scienza, ha risposto: «Per aiutare i giovani ad avere un loro futuro».
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