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Meno disuguaglianze con più investimenti in capitale umano

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Meno disuguaglianze con più investimenti in capitale umano

Caro Galimberti,
sono piuttosto preoccupato dalle scelte politiche di una società (in primis gli Usa) che favorisce le minoranze più ricche e non amalgama gli strati sociali. Questo fenomeno interessa anche l’Italia, dove cresce il divario tra Nord e Sud del Paese e tra aree industrializzate e quelle abbandonate. Lei ritiene che esista una soluzione? Non le sembra che stia prendendo sempre più corpo non il tronco dell’albero, ma quel ramo divaricato, che concentra sempre maggiormente il capitale in poche mani?
Nella sua opera principale “The General Theory of Employment, Interest and Money” (1936), Keynes sosteneva che la disoccupazione e la sottoccupazione si determinano con una carenza effettiva degli investimenti effettuati, che a loro volta sono soggetti alla relazione tra l’efficienza marginale del capitale fisso e il tasso d’interesse. Quest’ultimo nella Ue attualmente è ancora soggetto ai cambiamenti e, direi, agli umori delle singole nazioni, mentre i capitali vengono facilmente spostati nei Paesi più efficienti. In altre parole la redditività degli investimenti non va d’accordo con i bassi tassi d’interesse. I contraccolpi sociali di questa politica economica, che direi “astringente”, iniziano a farsi sentire e i licenziamenti per le difficoltà delle industrie sono all’ordine del giorno.
Il Rapporto Censis del 1992 (n. 213) evidenziava già il problema nel nostro Paese. Sono trascorsi venticinque anni e le cose mi sembrano a dir poco peggiorate. Sarà possibile uscire da questa impasse o dobbiamo subire ciecamente chi decide tutto e risolve poco o niente?

Piero Campomenosi

Caro Campomenosi,
la carenza di domanda, che, malgrado la ripresa in corso, continua ad affliggere le nostre economie, non deriva solo dalle esitazioni degli spiriti animali o dalle politiche di bilancio, come ai tempi di Keynes. È legata anche alle crescenti diseguaglianze: se i redditi più bassi crescono meno dei redditi più alti, la propensione al consumo diminuisce, dato che è più alta nelle classi di reddito basse e medio-basse. Ed è vero che in giro per il mondo c’è questa strana combinazione di basso costo del danaro e alti profitti. Le opportunità di riduzione dei costi offerte da tecnologia e globalizzazione vengono appropriate dalle imprese e non percolano verso i redditi dei lavoratori.
Come uscire da questa situazione? Non è facile ma neanche impossibile. I problemi sono strutturali, perché non si può fermare né la tecnologia né la globalizzazione. Le diseguaglianze hanno anche una dimensione geografica (Nord e Sud da noi, ma anche gli altri Paesi hanno i loro dualismi, più o meno accentuati), e una prima linea di contrasto è quella di favorire la mobilità, troppo spesso negata da alti prezzi delle case. Ma la misura principale è quella che riguarda il capitale umano: investire di più nell’istruzione e nella formazione: tutti gli studi dicono che questi investimenti hanno un alto tasso di rendimento, e i benefici vanno a chi si istruisce. In Italia la percentuale di giovani con un’educazione terziaria è molto più bassa rispetto ad altri Paesi: una situazione pericolosa proprio quando l’economia si avvia a essere sempre più “economia della conoscenza”.
fgalimberti@yahoo.com

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