L’immagine di Anna Frank con indosso la maglia della squadra di calcio avversaria, brillante idea dei tifosi della Lazio, è quanto di più stucchevole si potesse immaginare. Sta a dimostrare come l’odio sia una forza incapace di creare e che per dispiegare i propri effetti deve richiamare una simbologia trita e ritrita. D’altronde basta leggere le tesi strampalate sui cui il campione dell’antisemitismo Hitler basò il “Mein Kampf”, miti e leggende vecchie di secoli, o, più di recente, a come la modernissima America dei bianchi razzisti si attacchi a termini e riti che risalgono agli anni Sessanta. L’odio rimesta i soliti ingredienti in calderoni volta a volta diversi, spacciando come novità ciò che è solo il frutto di menti limitate e incapaci di aprirsi. Molti giovani laziali non hanno la più pallida idea di chi sia stata Anna Frank, il che non depone certo a loro favore, ma sta a certificare che a monte di simili campagne non c’è alcun serio ragionamento in termini di proselitismo. Ma forse non è questo il vero scopo di chi odia, convincere gli altri delle proprie tesi. Chi odia gode innanzitutto del proprio odio. Eppure, seppur figlio del narcisismo, l’odio riesce a propagarsi, a spandersi tra le persone, che arrivano a tatuarsi una croce celtica sul corpo senza sapere bene cosa essa rappresenti, di più, finanche a imbracciare un’arma, finanche a uccidere senza avere mai riflettuto sui perché dei loro gesti. Per questo l’odio, per quanto banale, per quanto sentimento in apparenza sterile, non deve essere ignorato, ma denunciato e contrastato fin dai primi suoi germi. Perché infettarsi, purtroppo, è questione di un attimo.
Lettera firmata
Generalmente apprezzo, e pratico, l’understatement, ma «stucchevole» e «strampalato» mi paiono termini fin troppo riduttivi rispetto alla portata dell’episodio romano e alla tragicità dell’esperienza nazista. Condivido il resto. Proprio perché l’odio è rapidamente contagioso, la guerra delle parole è importante: non che l’eccesso di retorica sia risolutivo (anzi!), ma la portata esatta dei termini che si utilizzano, dei gesti che si compiono e delle idee che si professano deve essere valutata soprattutto per misurare le responsabilità, isolare i violenti e favorire un clima di reciproca tolleranza.
Quindi, poiché la responsabilità è sempre personale, individuiamo i troll in carne e ossa, non riduciamoli con sufficienza a puri dementi, e isoliamoli nell’unica sfera che probabilmente sta loro a cuore (forse più ancora della fedina penale), ossia l’appartenenza fanatica a un club e la ricerca spasmodica dell’accettazione di gruppo attraverso il costante superamento dei limiti della decenza intellettuale.
Una volta isolati i violenti, però, il problema non si esaurisce: è vero che per trionfare nella sua istigazione all’odio Hitler non ebbe bisogno di Facebook, ma teniamo conto che oggi l’odio può diventare rapidamente e irreparabilmente virale, senza che siano alle viste vaccinazioni possibili (e speriamo in un Fleming capace di domare i batteri digitali). Insomma, non sorprendiamoci che in un mondo tutt’altro che sereno e armonico covi l’odio: razziale e non solo. Ormai intolleranza e violenza verbale dilagano al punto da creare, se non una complicità conclamata, un’assuefazione rassegnata. Perciò, per essere espliciti, lo sdegno contro l’offesa ad Anna Frank è doveroso; ma rischia di risultare ambiguo ed equivoco se non arriva a riconoscere di quanto sia superata, in tutt’Europa, la soglia di tollerabilità degli attacchi agli ebrei e a Israele, dove oggi probabilmente Anna vivrebbe, se i nazisti non glielo avessero impedito. Che da molte civilissime nazioni europee gli ebrei abbiano ripreso a scappare è una vergogna per tutti, altrettanto esecrabile delle trovate di qualche bulletto di borgata.
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