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Le university start up hanno una marcia in più ma l’Italia lo dimentica

Caro De Biase,

stiamo assistendo in Italia a un inatteso attivismo, da parte di una molteplicità di soggetti pubblici, a sostegno del venture capital; il che è di per sé un bene. C’è da noi meno venture capital che negli altri Paesi europei, con una incidenza sul Pil dei relativi investimenti soltanto dello 0,003% , a fronte di un 0,013% per la Ue-15. E i nostri fondi di venture capital non hanno né la scala né lo scopo per far crescere le startup innovative dall’early stage al mid-cap e dal mid-cap a global players. Questo è un male considerando la rilevanza che le nuove generazioni di imprese innovative oggi rivestono per una nuova ripartenza della crescita.

Da indagini recenti risulta che la somma totale dei fondi di venture capital messa a disposizione, in larga parte dal pubblico (Fei, Cdp, Invitalia, Fondo per il Sud, Regione Lazio, Fondo Veneto) è stimata in 1 miliardo di euro. È una somma importante; è quanto i fondi di venture capital italiani potrebbero investire in una decina di anni. Ma è difficile pensare che mettendo sul tavolo così tanti soldi si possa fare il miracolo di recuperare il gap che da sempre l’Italia accusa in fatto di startup e di innovazione tecnologica. Sembra quasi che ci sia stata una convergenza fuori programma tra più soggetti di natura pubblica nel dar vita a un simulacro di “Stato imprenditore-innovatore” senza avere alle spalle una qualche comune linea di politica industriale dell’innovazione orientata all’innovazione. Di fatto ci troviamo di fronte a un intervento pubblico che più che rimediare a fallimenti del mercato sembra quasi un atto di sfiducia negli investitori privati. Siamo quindi del tutto fuori dalla linea di pensiero che suggerisce che lo Stato deve limitarsi a “imbandire la tavola” senza disturbare più di tanto i commensali.

Nel rispetto delle tradizioni italiane non è poi da escludere che si finisca per indulgere nei criteri di valutazione del merito delle start up da finanziare. Da un lato, per la limitatezza del numero di deal disponibili, da un altro per il possibile prevalere di finalità di tipo assistenzialistico rispetto a considerazioni del merito. Ben vengano comunque nuove risorse finanziarie, se accortamente e gradualmente amministrate. Ma è fuorviante credere che l’unico handicap dell’Italia sia costituito dalla limitatezza dei fondi di venture capital, che peraltro c’è. Ben più grave e determinante è il fatto che la consistenza numerica e la qualità degli spin off/startup fondati sulla conoscenza, quelli a cui di norma negli altri Paesi si guarda con priorità, in Italia lasciano molto a desiderare. E questo è un evidente male.

L’esperienza esaltante che ci proviene non soltanto dagli Stati Uniti e da Israele ma anche dagli altri Paesi europei, e sempre più dalla stessa Cina, è che le university start up hanno una marcia in più sul resto in quanto: possono contare su una nuova tecnologia, più difficile da imitare e quindi su un più forte regime di appropriabilità; possono disporre a costi contenuti di un capitale umano molto qualificato e creativo; possono accedere se del caso, a condizioni privilegiate, a facilities e aiuti da parte delle istituzioni di ricerca e universitarie di riferimento; hanno una capacità di crescita sul mercato decisamente maggiore. Sono valori questi a cui l’Italia e la sua industria più avanzata non possono rinunciare.(…)

È noto in campo internazionale che le istituzioni di ricerca da sole non possono fare più di tanto nel campo del trasferimento tecnologico che comporta gravi rischi e inoltre richiede la disponibilità di un variegato mix di competenze altamente qualificate. A queste difficoltà ed esigenze è possibile rispondere con un organismo di consulenza ben dotato e organizzato, da porre a fianco dei migliori centri di ricerca tecnologica. È una via già percorsa con successo in molti Paesi, con un sostegno importante da parte del pubblico. Ora è un passaggio obbligato anche per l’Italia.

Riccardo Varaldo

Scuola Superiore Sant’Anna - Pisa

Caro Varaldo,

l’ecosistema non si modifica con pochi interventi, ma con un’accurata opera di trasformazione sistemica e di manutenzione dei particolari. Ed è vero anche per l’ecosistema dell’innovazione. La ringrazio per questo intervento il cui testo integrale si trova online nella rubrica Crossroads di Nòva100:

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