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Le tacite collusioni che tengono in vita i diritti di prevendita

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Le lettere

Le tacite collusioni che tengono in vita i diritti di prevendita

Caro Galimberti, domenica sono andato in un locale di Milano per assistere al concerto di Mulatu Astatke. Ho resistito alla tentazione di comprare il biglietto in prevendita, contando sul fatto che il 73enne jazzista etiope in una serata novembrina di pioggia non avrebbe richiamato chissà che folle, e così ho evitato di aggiungere ai 22 euro del biglietto due euro di prevendita e un euro e qualche spicciolo di commissioni. Giunto al locale mi sono sentito dire che dovevo posare il mio ombrello al guardaroba, costo due euro. A parte l’ovvia constatazione che il banco vince sempre, mi domando: come mai chi compra in prevendita paga di più, quando sta facendo un favore a tutte le parti coinvolte? A quali leggi dell’economia risponde il fatto che produrre un ombrello, imballarlo, metterlo in un container, caricarlo su una nave, fargli attraversare gli oceani, scaricarlo, trasportarlo e venderlo in un negozio della Chinatown milanese costi 4 euro, mentre depositarlo per un paio d’ore nel guardaroba di un locale di euro ne costi 2? Detto questo i 24 euro sono stati ben spesi: il concerto è stato splendido e l’ombrello serviva.
Lettera firmata


Caro lettore, non sapevo niente di jazzisti etiopi, e la sua lettera mi ha aperto nuovi orizzonti. La ringrazio, ho ascoltato ora su Youtube un album di Astatke.

Ma veniamo alle sue due domande. Primo, perché comperare il biglietto in prevendita costa di più? Succede anche dalle parti mie per i biglietti del cinema, dove, quando compro il biglietto online, mi fanno pagare di più. Ci sono due considerazioni: da una parte c’è il minor costo del proprietario del cinema, dato che risparmia sul botteghino, dove c’è un costoso essere umano che vende i biglietti; e questo è un fattore che dovrebbe spingere a far pagare di meno e non di più. Dall’altro, c’è il “surplus del consumatore”, come si chiama in economia. Per l’acquirente è più comodo evitare le file al botteghino e stamparsi il biglietto (o sventolare lo smartphone col biglietto); e questo è un fattore che potrebbe spingere a far pagare di più. I due fattori potrebbero compensarsi, ma, probabilmente a causa di mancanza di concorrenza o di tacite collusioni, gli esercenti si appropriano dei risparmi di costo e fanno pagare il “surplus del consumatore” (che a questo punto non è più un “surplus”).

Veniamo alla seconda domanda. È vero, sembra strano che comperare un ombrello a Chinatown costi 4 euro (forse un po’ di più ad acquistarlo dagli ambulanti che spuntano come funghi per le vie cittadine appena cade un po’ di pioggia – per loro si tratta di estrarre un legittimo “surplus del consumatore”), mentre per un paio d’ore di deposito bisogna pagare due-euro-due. Ma nel secondo caso non si paga un ombrello, ma un servizio prestato da un costoso essere umano. Chi produce l’ombrello in Cina si accontentava di un pugno di riso (ora non più – forse gli ombrelli adesso vengono dal Vietnam o dal Bangladesh), ma una guardarobiera milanese vuole – giustamente – molto di più di un pugno di riso.
fgalimberti@yahoo.com

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