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Dossier Il nuovo ordine mondiale di Pechino

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Dossier | N. 57 articoliMappamondo

Il nuovo ordine mondiale di Pechino

Due storie geopolitiche parallele hanno dominato sinora il ventunesimo secolo: il relativo declino degli Stati Uniti dalla fine del periodo post-Guerra fredda e l’ascesa della Cina quale potenza economica, politica e militare. Sarà cruciale per gli equilibri geopolitici osservare come si muoverà la Cina sulla scena mondiale nei decenni a venire.  

In un’ottica prospettica, la visione strategica della Cina rifletterà con molta probabilità quella del suo presidente, Xi Jinping, che ha ora consolidato la propria posizione come il più potente leader cinese dai tempi di Mao Zedong. Nel suo discorso al 19/mo Congresso nazionale del Partito comunista cinese svoltosi il 18 ottobre, Xi ha proclamato una nuova era di forza nazionale, autostima e potenza globale. 

Xi si adopera affinché la Cina, avendo raggiunto la parità geopolitica con gli Stati Uniti, si affermi sul piano diplomatico e assuma un ruolo più dominante nello scrivere le regole del sistema internazionale. Il mondo dovrebbe quindi prepararsi a un picco di attivismo cinese sul fronte della politica estera. Per comprendere quale forma assumerà questo attivismo e come impatterà sulle relazioni internazionali, gli approfondimenti dei commentatori di Project Syndicate, che da tempo documentano l’ascesa della Cina a potenza regionale e globale, rappresentano una risorsa preziosa.  

Attenzione alla “trappola di Tucidide”
Nel suo chiaro perseguimento della parità con gli Usa, la Cina certamente beneficerà del fatto che l’Occidente è, secondo l’ex premier australiano Kevin Rudd, “sempre più assorbito da sé stesso, auto-compiaciuto e gratificato a livello internazionale”. Mentre però gli equilibri mondiale del potere continuano ad allontanarsi dall’Occidente, la Cina dovrà tener conto dei nuovi e crescenti rischi. 

Ad esempio, Graham Allison e il suo co-autore Arianna Huffington di Harvard mettono in guardia sul fatto che la Cina e gli Usa possano cadere nella “trappola di Tucidide”, che deve il nome allo storico greco secondo cui “furono l’ascesa di Atene e i timori che essa suscitò in Sparta a rendere la guerra inevitabile”. Secondo Allison e Huffington, ciò che era vero nel periodo precedente alla Guerra nel Peloponneso vale anche oggi. “Negli ultimi 500 anni”, scrivono, “su 16 casi in cui una potenza in ascesa minacciava di relegare in secondo piano una potenza dominante, 12 hanno portato alla guerra”. 

Dato che la regione Asia-Pacifico rappresenta il cuore pulsante dell’economia mondiale, è logico che Cina e Usa continuino a spintonarsi per cercare un’influenza strategica in quest’area. Ma questo gioco delle politiche di potere potrebbe davvero avere un’escalation fino ad arrivare alla guerra? Da un lato, la Cina ha costruito e fortificato le isole nel Mare meridionale cinese, esteso la propria presenza navale nell’Oceano indiano, nel Mar arabico e nel Golfo di Aden, creato una base navale a Djibouti. E ora surclassa tutti gli altri membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu con le truppe offerte nelle operazioni di pace dell’Onu in Africa. 

Dall’altro, dato il significativo divario tra il desiderio della Cina di estendere la propria potenza a tutela degli interessi economici più disparati e la sua effettiva capacità di farlo, i leader cinesi potrebbero non volersi spingere troppo oltre nello sfidare gli Usa. SecondoKeyu Jin della London School of Economics, sono “ben consapevoli di come la trappola di Tucidide abbia irretito sia la potenza dominante che quella sfidante, anche dopo che quest’ultima sembrava aver vinto”. 

Sanno anche che la Cina è stata la principale beneficiaria dell’esistente ordine basato sulle regole, il che spiega perché Xi abbia usato la sua presenza al meeting annuale del World Economic Forum di gennaio per difendere il sistema commerciale globale dalla retorica protezionistica propugnata dagli Usa. E al congresso del Partito comunista, Xi ha affermato che, “Nessun paese può ritirarsi sulla propria isola, viviamo in un mondo condiviso e siamo di fronte a un destino condiviso”. Tali considerazioni sembrerebbero escludere l’ascesa della Cina quale potenza mondiale revisionista. 

Ma l’ex vice segretario di Stato americano James Steinberg e Michael O’Hanlon della Brookings Institution preferiscono non correre alcun rischio. Gli Usa devono dimostrare una tale determinazione nel mantenere lo status quo internazionale da far desistere la Cina dal sovvertirlo. Steinberg e O’Hanlon si rivolgono agli “Usa e ai suoi partner” per sviluppare “un più ampio spettro di risposte che consentirebbe loro” di “dimostrare la volontà di imporre costi significativi senza scatenare un’escalation controproducente”. E raccomandano un “adattamento della consolidata strategia americana del tipo ‘engage but hedge’ (coinvolgimento e copertura)”, in cui gli Usa forniscono alla “Cina gli incentivi per un’ascesa pacifica, mantenendo al contempo robuste capacità militari nel caso in cui il coinvolgimento si rivelasse fallimentare”. 

Verso un sino-centrismo?
E ancora, pur diventando la potenza dominante in Asia nel prossimo futuro, lì gli Usa non potranno mantenere all’infinito anche la piena supremazia militare, economica e normativa. E la presidenza di Donald Trump ha messo in discussione il futuro stesso dell’ordine internazionale postbellico trainato dagli Usa. Eppure già prima che Trump annunciasse la sua candidatura, Yoon Young-kwan, ex ministro degli Esteri della Corea del Sud, faceva notare come i leader cinesi avessero a lungo creduto “che la crisi economica del 2008 e gli ingenti costi delle due guerre all’estero non avessero lasciato gli Usa in una posizione tale da poter esercitare la leadership internazionale”. 

Il potenziale declino dell’ordine internazionale guidato dagli Usa, insieme alla dichiarazione di Xi di voler assumere un ruolo maggiore di leadership sulla scena mondiale, sollevano immediatamente una serie di punti critici. Prima di tutto, diversamente dalle potenze europee del XIX e XX secolo, la Cina non possiede alcuna tradizione storica, filosofica o letteraria su cui basare la propria condotta in un sistema di grandi potenze. Il suo retaggio è quello dell’Impero di Mezzo a cui rendevano omaggio gli stati vassalli. In modo analogo, gli Stati Uniti non vantano alcuna esperienza nel trattare con un rivale come la Cina. Anche al culmine, l’Unione Sovietica era fondamentalmente una superpotenza militare monodimensionale, mentre la Cina sta rapidamente emergendo come potenza multi-dimensionale con un’economia competitiva a livello mondiale. 

Ovviamente, un’altra differenza sostanziale tra la Cina e l’Unione Sovietica è che la prima ha dimostrato scarsa inclinazione ad esportare il proprio modello autoritario, ferma restando la retorica di Xi. La Cina preferisce puntare a promuovere la stabilità politica e la crescita domestica nazionale, garantendo l’accesso alle risorse e ai mercati all’estero. L’espressione massima di questo approccio è la Belt and Road Initiative (BRI), che secondo Shang-Jin Wei della Columbia University, “punta a sviluppare infrastrutture fisiche e correlazioni politiche collegando oltre 60 paesi tra Asia, Europa e Africa”. 

Nella visione di Wei, la BRI è esattamente ciò di cui ha bisogno il mondo ora che gli Usa e altri “paesi influenti guardano al loro interno, parlano di erigere barriere commerciali e costruire muri di confine”. Così anche l’ex ministro degli Esteri australiano Gareth Evans riconosce che l’Australia e gli altri alleati e partner Usa in Asia “non possono più – se mai avessimo potuto – dare per scontata la coerente e brillante leadership americana”. E incoraggia tutti i governi a “riconoscere la legittimità delle nuove aspirazioni della grande potenza cinese e a intrattenere relazioni non conflittuali”. 

Guai in alto mare
Ma Evans mette anche in guardia sul fatto che la Cina debba essere contrastata quando eccede, non da ultimo nel Mar cinese meridionale, dove ha continuato a sfidare una decisione di luglio 2016 della Corte permanente di arbitrato (PCA) dell’Aia che invalidava le rivendicazioni territoriali della Cina. Solo quest’estate, osserva Brahma Chellaney del Center for Policy Research di Nuova Delhi, la Cina “ha minacciato di lanciare azioni militari contro gli avamposti del Vietnam nelle contese Isole Spratly”, per evitare che il governo vietnamita “procedesse all’estrazione di gas a confine con una zona economica esclusiva cinese nel Mar cinese meridionale”. 

Le provocazioni marittime apparentemente random da parte della Cina non sempre intimano altri governi al punto da fare marcia indietro. Ma testano davvero la volontà e la capacità dell’America di sostenere i suoi alleati e partner strategici. Nel mantenere deliberatamente le proprie azioni al di sotto della soglia di aperta guerra, la Cina tenta gradualmente di provocare la fatica strategica negli Usa e nei suoi partner. La strategia sembra dare i suoi frutti. Solo nel 2017, le Filippine hanno accettato accordi commerciali e di investimento di notevole portata con la Cina, la Malesia ha acquistato navi da guerra cinesi, e il Vietnam si è adoperato per rafforzare i propri legami diplomatici e militari con la Cina. 

Che non significa che non ci siano stati dei contraccolpi. Secondo Le Hong Hiep dell’Istituto ISEAS-Yusof Ishak di Singapore, le azioni della Cina nel Mar cinese meridionale hanno spinto Vietnam e Giappone ad approfondire la “partnership strategica” forgiata nel 2009. Hiep riporta che il Giappone ha promesso di fornire al Vietnam “delle motovedette per supportare le sue attività di difesa nel Mar cinese meridionale” e di vendere sempre al Vietnam “due satelliti di osservazione della terra all’avanguardia dotati di radar” e forse “aerei di seconda mano P-3C per il pattugliamento marittimo e la lotta antisommergibili”. 

E il Vietnam non è il solo. Secondo Thitinan Pongsudhirak dell’Università di Chulalongkorn di Bangkok, “il rapido emergere [della Cina] a grande minaccia della stabilità regionale” sta spingendo a una corsa agli armamenti in Asia. Di fatto, nell’ultimo anno, la regione ha investito “quasi la metà della spesa per armamenti del mondo, che è più del doppio della spesa totale per gli armamenti dei paesi del Medio Oriente e quattro volte quella dell’Europa”. 

Le passate dichiarazioni di Trump secondo cui gli alleati Usa dovrebbero provvedere alla propria difesa certamente non hanno aiutato. Ma il vero problema, sostiene Pongsudhirak, è l’assenza nella regione di un “quadro per prevenire, attenuare e risolvere controversie territoriali”. Un quadro di questo genere non sarà mai fattibile senza la partecipazione della Cina; per realizzarlo, Pongsudhirak raccomanda che “le altre parti interessati facciano un passo indietro e diano alla Cina lo spazio per riconoscere i pericoli della propria aggressione”. 

Anche se però la Cina vedesse l’errore con i propri occhi, secondo Evans, è “improbabile che abbandoni l’occupazione di qualsiasi isola, scogliera o roccia attualmente rivendicate”. Propone un compromesso che consentirebbe alla Cina di salvarsi la faccia. Tra le altre gesta in buona fede, i leader cinesi dovrebbero essere incoraggiati a mettere in stand-by altre rivendicazioni e accettare un codice di condotta negoziato con altri membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (ASEAN). 

In alternativa, se i sostenitori della linea dura di Pechino avranno la meglio e la Cina insisterà con il suo atteggiamento aggressivo, l’Australia e altri paesi potrebbero decidere di condurre operazioni Fonop (ossia di “Freedom of navigation”) nelle 12 miglia nautiche delle aree contese sotto il controllo cinese. Come ci ricorda Joseph S. Nye di Harvard, gli Usa hanno già creato un precedente nel 2013, quando due bombardieri B-52 hanno sorvolato la Zona di identificazione di difesa aerea che la Cina aveva dichiarato unilateralmente e senza riferire della controversia sulle Isole Senkaku/Daiyou nel Mar cinese orientale. 

Sfortunatamente, con un aumento delle operazioni del tipo Fonop, la probabilità degli incidenti militari aumenterà. Tutte le parti farebbero bene a fare attenzione all’avvertimento emesso dall’ex presidente delle Filippine Fidel V. Ramos quando ricopriva la carica di inviato speciale in Cina dopo la decisione del 2016 della PCA: le tensioni in Asia non riguardano solo “rocce e atolli”; si tratta di “guerra e pace”. 

Come la vede Pechino
Gli occidentali amano pensare che la profonda integrazione economica della Cina a livello regionale e mondiale le consentano di evitare un conflitto. Ma la Cina intende davvero ripristinare il proprio status storico quale egemonia regionale, non senza un ribilanciamento militare in Asia. E i leader cinesi potrebbero persino scommettere che i capi Usa si arrendano invece di rischiare un costoso confronto. Molti fiumi pieni di cadaveri affondano le radici in queste supposizioni. 

Ma è importante vedere la situazione dalla prospettiva della Cina. Come ci ricorda Steinberg e O’Hanlon, la Cina vanta una “storia di vulnerabilità agli interventi stranieri”. E oggi, osserva Minghao Zhao dell’Istituto Charhar di Pechino, “le sue coste sono, per certi versi, circondate da Giappone e Filippine, entrambi alleati degli Stati Uniti, e Taiwan, con cui gli Usa mantengono legami per la sicurezza”. Inoltre, Zhao spiega, i leader cinesi non sono ciechi di fronte alla strategia di contenimento dell’America nella regione. Nel tempo il sistema Usa delle “alleanze hub-and-spoke” si è trasformato in un “sistema di sicurezza in rete nel teatro Indo-Pacifico”. 

In base a questa trasformazione, osserva Zhao, il Giappone conta una maggiore “autonomia negli affari per la sicurezza”, la Corea del Sud ospita il sistema di difesa missilistica americano, e l’India e il Vietnam si sono avvicinati agli Usa. I leader cinesi certamente non potevano ignorare il vano tentativo dell’America di evitare che i propri alleati partecipassero alla Banca asiatica di investimento per le infrastrutture (AIIB) guidata dalla Cina. In queste circostanze Zhao spiega, “la Cina sente di non avere altra scelta che prepararsi ai peggiori scenari – un approccio che si riflette nel cosiddetto ‘concetto di bottom line’ del presidente cinese Xi Jinping”. 

In tale contesto, la maggiore assertività della Cina nel Mare cinese orientale e meridionale, e i suoi sbandieramenti in Indonesia e Australia potrebbero essere visti come tentativi di respingere il contenimento occidentale nella propria regione. La leadership cinese, osserva Bill Emmott, ex direttore dell’Economist, “crede che la Cina debba poter mostrare la potenza militare e difendere ciò che considera il proprio spazio strategico – esattamente come gli Usa”. Ciò pone un dilemma strategico per gli Usa. Una Cina in ascesa non può aspettarsi di tollerare all’infinito l’intrusiva presenza militare degli Usa nella regione. Ma una politica Usa di accomodamento potrebbe sconvolgere le sue alleanze nella regione, nonché segnalare una perdita di risolutezza e credibilità come garante per la sicurezza. 

Il grande gioco dell’Asia
Da nessuna parte il timore della condiscendenza americana è più marcata che in Giappone e in Corea del Sud, i due paesi dove “l’odierna corsa agli armamenti in Asia potrebbe avere un’escalation oltre le armi convenzionali”, osserva Yuriko Koike, ex ministro della Difesa giapponese e ora governatore di Tokyo. Anche prima che entrasse in scena Trump con il suo “confuso sciovinismo”, spiega Koike, le provocazioni cinesi avevano concesso al primo ministro giapponese Shinzo Abe abbastanza spazio politico da spingere per rivedere la clausola pacifista della costituzione giapponese del secondo dopoguerra. 

Nel frattempo, la Cina ha anche iniziato a istigare l’India. Chellaney riferisce che “quest’anno la Cina ha deciso di trattenere i dati [idrologici e metereologici] provenienti dall’India, così compromettendo l’efficacia dei sistemi di previsione delle alluvioni dell’India – durante la stagione estiva dei monsoni in Asia, nientedimeno”. E quest’estate India e Cina erano bloccate in una alquanto tesa situazione di stallo, a causa delle “incursioni segrete” della Cina nella terra lungo il confine himalayano con l’India. Esattamente come “le forze navali della Cina seguono i pescatori per ritagliarsi uno spazio per reclamare rocce o scogliere” nel Mar cinese meridionale, osserva Chellaney, così le sue forze di terra seguono la scia di “pastori, contadini e ruminanti” civili. 

Il 28 agosto Cina e India hanno annunciato una soluzione diplomatica sul conflitto himalayano. Ma nessuno sa quanto durerà la pace. Negli ultimi decenni, la Cina è stata meno generosa nell’accomodare l’ascesa dell’India rispetto a quanto non abbiano fatto gli Usa nei confronti della Cina.Shashi Tharoor, presidente della Commissione permanente parlamentare per gli Affari esterni, intravede uno schema preoccupante nel comportamento della Cina, in base al quale i suoi leader rispondono al primo ministro indiano Narendra Modi “con una serie di insulti”. 

Ad esempio, nel 2014, dopo che Modi aveva accolto Xi “nella sua città natale, Ahmedabad, il giorno del suo compleanno”, riferisce Tharoor, “i soldati cinesi hanno prontamente oltrepassato la frontiera contesa con l’India nella regione Ladakh di Jammu e Kashmir, piantando persino tende sulla terra che l’India considera il proprio territorio sovrano”. La Cina ha anche posto il veto sulla candidatura dell’India per l’adesione al Gruppo dei fornitori nucleari (NSG), e “costruito un ‘corridoio economico Cina-Pakistan’ attraverso le zone del Kashmir controllate dal Pakistan”, che “la stessa Cina riconosce” come territorio conteso. E nell’aprile di quest’anno, la Cina ha lanciato una valanga di minacce e recriminazioni all’India dopo che il Dalai Lama aveva pagato una visita a uno storico monastero buddista nello stato indiano di Arunachal Pradesh. 

Al comando?
Per molti osservatori, i contrattempi in aumento verificatisi quest’anno tra gli Usa e la Corea del Nord rispetto al programma nucleare di quest’ultima dovrebbero essere un’occasione per la Cina per dimostrare una leadership più responsabile di quanto non abbia dimostrato altrove. Come spiegava Hiep quando Xi e Trump hanno avuto il primo incontro faccia a faccia in aprile, Trump sembra pensare che minacciando l’azione commerciale contro la Cina, possa costringere la Cina a “tenere a freno le ambizioni nucleari del regime della Corea del Nord”. Ma nella visione di Hiep, l’amministrazione di Trump sta “sovrastimando l’influenza cinese sulla Corea del Nord”. Dopo tutto, il regime di Kim Jong-un ha continuato i propri test missilistici e nucleari “malgrado le sanzioni cinesi, che hanno frenato le importazioni di carbone dalla Corea del Nord – la principale fonte di entrata del regime”. 

Inoltre, i leader cinesi non stanno lasciando che il loro personale disgusto per Kim li distragga dai loro più grandi obiettivi geostrategici. Come precisa Lee Jong-Wha dell’Università della Corea, affinché la Cina faccia di più, “deve essere rassicurata sul fatto che non perderà nell’immediato il suo buffer strategico nella penisola coreana”. Senza una garanzia di questo tipo, è probabile che non collabori, anche se così facendo potrebbe danneggiare “i suoi rapporti con Usa, Europa, Giappone e Corea del Sud – tutti partner più preziosi dell’indisciplinata e impoverita Corea del Nord”. 

Un passo avanti, fa notare l’ex primo ministro svedese Carl Bildt, sarebbe che tutte le parti coinvolte adottassero un approccio diplomatico più ampio che inizi “ad affrontare direttamente il cuore del problema: ossia, che nessun trattato di pace sia mai stato siglato per porre fine alla guerra coreana del 1950-1953”. Un tale dialogo, continua Bildt, “potrebbe aprire la strada per discussioni più ampie sull’escalation nucleare e su altre minacce alla stabilità regionale”. Con la Cina ancora impegnata nei negoziati di pace, questo corso di azione potrebbe garantire massimi benefici a un costo minimo. 

Ma Emmott osserva che c’è un’alternativa ai negoziati o all’attacco militare guidato dagli Usa: la Cina stessa potrebbe intervenire militarmente, fornendo una garanzia per la sicurezza al regime di Kim o effettuando un cambiamento di regime più ordinato. Questo scenario potrebbe sembrare illogico. Secondo Emmott, invece, non solo è plausibile, ma rappresenta la “migliore opportunità della Cina di raggiungere una maggiore parità strategica con gli Usa nella regione, rimuovendo al contempo una fonte di instabilità che minaccia entrambi”. 

Il rischio di non essere all’altezza
Mentre la Cina fa i conti con le richieste di leadership regionale e globale, dovrà stare attenta non solo alla trappola di Tucidide, ma anche a quella che Nye definisce la “trappola di Kindleberger”: “una Cina che sembra troppo debole invece che troppo forte”. L’idea, spiega Nye, viene da Charles Kindleberger, uno storico americano che “sosteneva che il disastroso decennio degli anni 1930 fosse conseguenza del fatto che gli Stati Uniti avessero sostituito la Gran Bretagna come maggiore potenza globale senza però assumere il ruolo di quest’ultima nel fornire beni pubblici globali”.

La Pax Britannica fu costruita su un sistema di colonialismo legale e controllo territoriale, che consentiva alla Gran Bretagna di estrarre, elaborare, movimentare, usare o vendere la proprietà di vaste risorse naturali di tutto il mondo. La Pax Americana, invece, fu costruita su un sistema di regimi di accesso al mercato, che garantiva agli Usa il controllo sulle risorse, e agevolava un flusso globale di capitale, beni e tecnologia. Creando i mercati globali invece di un impero globale, gli Stati Uniti sono sfuggiti alla responsabilità giuridica per la sicurezza e la prosperità dei propri dipendenti neo-coloniali. E convincevano gli altri che “i beni pubblici globali” fossero essenzialmente una propaggine dell’egemonia americana.

 Dopo il 1945 l’America scrisse le regole dell’ordine internazionale, che tiene sotto controllo da 70 anni. La questione ora è se la Cina sia disposta ad accettare questo onere. La Cina sta estendendo il proprio potere e influenza attraverso la BRI e altre iniziative, e questi sforzi le hanno consentito di cementare i propri legami diplomatici, incentivare il commercio e realizzare corridoi energetici.

 Sinora, però, la Cina non è riuscita a far combaciare i beni pubblici regionali e globali con gli interessi nazionali cinesi. E come osserva Minxin Pei del Claremont McKenna College, il partito comunista cinese stesso “è diventato quasi irrilevante nella vita quotidiana dei cinesi”. Ciò potrebbe, secondo Pei, limitare il potere di Xi. Ma se i leader cinesi vogliono riuscire a inserire il proprio paese nella leadership globale, dovrebbero continuare a focalizzarsi sulla crescita economica e sulla stabilità sociale a livello domestico, coltivando al contempo le alleanze e l’influenza che servono a preservare l’esistente ordine internazionale basato sulle regole. Altrimenti l’ascesa della Cina sconvolgerà quell’ordine, e il risultato sarà una quasi certa volatilità regionale e mondiale per gli anni a venire.

 
Ramesh Thakur, ex vice segretario generale delle Nazioni Unite, è direttore del Center for Nuclear Non-Proliferation and Disarmament presso l’Australian National University.
Il suo ultimo libro si intitola The United Nations, Peace and Security: From Collective Security to the Responsibility to Protect (2nd Edition).

 Copyright: Project Syndicate, 2017.
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